Napoli, c’era una volta e ora non c’è più

Se ne sono andati appena dodici mesi da quei giorni di dimensione surreale prima della gioia scudetto: viene da chiedersi se la felicità debba avere un prezzo
Antonio Giordano
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Lultima gioia che Napoli vuol concedersi è un (meritato) tuffo nella memoria, per provare persino a se stesso d’aver vissuto. Se ne sono andati appena dodici mesi da quei giorni di dimensione surreale e prima ancora di chiedersi se la felicità debba avere un prezzo, forse è il caso di verificare d’essere stati autenticamente protagonisti della storia e certificare che quel tempo sia esistito. C’è una squadra (ma soprattutto un club) che si aggira per i campi di calcio di Serie A e pure d’Europa, porta addosso magliette con lo scudetto - che deve aver legittimamente conquistato - e però nelle sue fattezze, che siano tecniche, tattiche e dirigenziali, nulla la riconduce e né l’avvicina al suo status. Però, dopo affannose ricerche, pare che non ci siano ombre di dubbio: alla venticinquesima dell’ultimo campionato questa squadra, più o meno la stessa, dominava il calcio italiano, aveva ventotto punti (28, eh) di distanza da quella che ora vaga senza un orizzonte, e distribuiva l’autorevolezza e l’eleganza di cui l’aveva arricchita il suo “guru”, Luciano Spalletti, anche in mezza Europa.

Napoli, la star si è eclissata

Ora che il Napoli, la star, s’è eclissata, divorata da una forma di ego sostenuto da insospettabili tracce autodistruttive, nelle analisi più scomposte e superficiali c’è la tendenza a ritenere quel capolavoro un miracolo, per la Treccani «evento straordinario, estraneo alle leggi della natura e attribuito a forze o eventi soprannaturali». È invece è scritto nelle tavole del calcio - o nel dizionario del football - che il Napoli dello scudetto è la rappresentazione più solare di un’identità progettuale ventennale (dal De Laurentiis-day nel settembre del 2004), la sintesi più limpida del valore tutt’altro che simbolico della competenza (che con Anguissa, Kim e Kvaratskhelia esalta l’evoluzione di Giuntoli) e poi la dimostrazione plastica della raffinata cultura d’un allenatore per lunghi tratti “incompreso” nella sua estrosa genialità (perché essere Spalletti, nel percorso trentennale, non è mai stato banale).

Napoli, dall'allegria alla cupa malinconia

Non c’è trucco e non c’è inganno: il Napoli campione d’Italia ha avuto un senso e ne ha dato a quei giorni, non è germogliato casualmente e né ha rappresentato l’evento - il cosiddetto “allineamento dei pianeti” - non è stato neanche sopravvalutato, altrimenti si dimentica ciò ch’è successo nell’epoca in cui è andato a zonzo nel Vecchio Continente (con dentro una semifinale di Europa League con Benitez e un quarto di Champions League, marzo 2023), le Coppe Italia, le Supercoppe, i titoli evaporati con novantuno punti (91, eh), gli spettacoli attrezzati un po’ ovunque, quella massa multietnica di talenti talmente imponente da definire una costellazione di stelle. E comunque, al di là d’ogni forma di disfattismo dialettico, il Napoli s’è dato ed ha sparso allegria, che ora sta diventando la più cupa malinconia, perché stavolta, nel sottoscala del proprio vissuto - con quei ventotto punti che separano oggi da ieri - la preoccupazione è quel muro opaco che si staglia in vicinanza. E a cui si somma, ascoltando spesso le incursioni di Adl smarrito nel proprio entertainment o compresso nelle sue invasioni un po’ barbariche negli spogliatoi, la percezione di dover fronteggiare un pericolo strisciante, incontrollabile e pure ingovernabile: il vuoto del potere ideativo, il lento decadimento per l’incapacità di dire no.  

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