Fonseca, il segno di Zorro

Fonseca, il segno di Zorro© ANSA
Giancarlo Dotto
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Da uomo intelligente quale certamente è, Paulo Fonseca sapeva di non poter contare sulle parole. Per due motivi. Non poteva farlo nella sua lingua. Secondo motivo, dopo otto allenatori in nove anni, tutte le parole possibili sono state consumate in casa Roma, come le sette fiasche di lacrime e le sette paia di scarpe della famosa favola. Il portoghese aveva una sola chance di comunicare se stesso nel modo giusto a una piazza che definire scettica è stucchevole eufemismo. La postura, lo sguardo, la fermezza, la misura, non cedere alle lusinghe, non sorridere troppo, non sbracare nelle promesse ma nemmeno nell’enfasi. In una parola, la personalità. 

Paulo Fonseca ne ha da vendere. Non so se basterà, ma intanto è un fondamentale punto di partenza, a ripensare anche all’analogo debutto pubblico di Eusebio Di Francesco. Che non aveva ancora detto la prima parola e già era tutto “troppo saputo”, “scontato”, senza un’oncia di mistero, sideralmente lontano dalla sola ipotesi di una parola carismatica. Chi si aspettava un guascone imbonitore in versione Zorro si è trovato un uomo serio, elegante e penetrante. Devo dire che Fonseca e Petrachi insieme sono un bel vedere. Sorrisi zero, un muro cazzutissimo. L’idea è quella della roccia, non del mollusco che si posa sopra, e si sa bene a Trigoria quanto il mollame sia contagioso. Se Fonseca mi ha impressionato, Petrachi mi aveva sbalordito. So bene che i salentini bruciano dentro, ma i migliori di loro sanno combinare il fuoco con il ghiaccio, l’emotività del cuore con la sferzante lucidità della testa.

Fonseca e Petrachi, così a intuito, sembrano avere questo in comune: la necessaria brutalità e le feroci sintesi della passione. Non guastate dalla vanità. Potrebbe essere la medicina giusta per questa Roma che rischia di ammalarsi più di quello che già è solo leccandosi le ferite. L’idea che si possa da oggi ripartire con il convoglio giusto e una fiducia fondata.

«Non sarà la mia Roma, ma la Roma di tutti», l’incipit forte e deciso del portoghese. L’unica, piccola concessione allo schema retorico del «si combatte e si vince tutti uniti». Non è così, Fonseca, e lei ha dimostrato di saperlo molto bene nel passaggio convincente in cui ha celebrato l’importanza del leader. Quelli a Dzeko e a Zaniolo (sulla scia di Petrachi) sono messaggi di un leader. Florenzi o Pellegrini? L’unico, vero capitano sarà lei. Lei in campo e Petrachi fuori. La Roma che sta per nascere sarà vostra al mille per mille. Una responsabilità enorme e meravigliosa. Godetevela fino in fondo. 


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