La Roma a immagine di Mourinho

La Roma a immagine di Mourinho© ANSA
Giancarlo Dotto
4 min

Ave Mou! Questa volta non è un benvenuto o un auspicio, ma una presa d’atto: da ieri pomeriggio qualunque ecografia del torace di José svelerà macchie per nulla allarmanti di giallo e di rosso. Una specie di rito battesimale che si consuma inatteso nel più grande e rumoroso studio dentistico d’Italia, uno stadio, al cospetto di una squadra che ti buca, ti trapana e ti squarta con una aggressività innaturale, senza anestesia preventiva, ma ieri ridotta da Mourinho e la sua banda a una malinconica versione da bruma invernale del “troppo rumore per nulla”. Da ieri, José romanista dentro, solo a vederlo come si presenta all’intervista del dopo partita. Disfatto nella voce e nella maschera, tempestato di lupi e lupe addosso, tra maglia e tuta, denti affilati e generose mammelle. Lupus in fabula? La favola può ufficialmente iniziare.

Sembrava, sì, José, uscito esausto da una drammatica seduta dal dentista, in cui però a cadere erano stati solo molari e pensieri guasti, non il resto della dentiera sana, come capita quando c’è di mezzo la feroce attitudine di Mister Toloi, Herr Freuler e compagni. Proibito ora lasciarsi andare a facili sentenze, slacciare le solite euforie invereconde. Proibito e grottesco parlare di “svolta”. Se il calcio è bello, quando è bello, è perché qualcosa accade dentro un romanzo di novanta minuti in cui giocano troppe variabili. Non sappiamo che Roma sarà da qui a quattro giorni. Sappiamo però, alla fine di un match di selvaggia bellezza, che Mourinho ha definitivamente scoperto anche a se stesso la Roma che germina nella sua testa. La Roma che vuole. Un gruppo compatto, solidale, in missione permanente, illuminato dalla qualità dei pochi che, si spera, diventeranno tanti.

Non ci libereremo facilmente del tedioso ritornello appeso al microfono di turno: che risultato è giusto aspettarsi da Mourinho e dalla sua Roma? La verità è che Mou ha già ottenuto due risultati di calcolabile valore: ha riportato passione e identificazione nella gente romanista, l’essenza stessa del tifo. Ha costruito un gruppo che, sbandamenti di crescita a parte, mostra dedizione e applicazione nei suoi giocatori più importanti. A cominciare da Smalling (ieri imperiale per novanta minuti) e Miki di cui si vociava la difettosa empatia con il guru di Setubal. Commoventi oltre che travolgenti gli assalti furiosi di Veretout, nazionale francese, per non parlare di Karsdorp, a cui la stampa romana sottrae puntigliosamente mezzo voto a ogni partita. Ha tirato dalla sua in modo definitivo leader di campo e di spogliatoio come Mancini e Cristante, ha fatto di Ibañez un crociato e, su tutti, Abraham e Zaniolo. Tammy non ha fatto in tempo a rivolgergli la domanda «dove cavolo mi hai trascinato mister, in quale mischia fangosa, io che venivo da prati araldici?», che José l’aveva già fatto innamorare del fango. E Nicolò. Per chiudere e per aprire. Gol a parte, un ventaglio di prodigi tecnici in pochi secondi, abbiamo visto e speriamo di vederlo da qui all’infinito il ragazzo che sarà capace di non sprecare il suo talento con isteriche uscite di senno. Avevamo invocato lo Zaniolo capace di sposare il talento alla lucidità e all’efferatezza. Ieri, i tifosi hanno cominciato a vedere e a presagire. Il presentimento del godimento.


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