Roma, l’occasione della gloria

Roma, l’occasione della gloria© AS Roma via Getty Images
Marco Evangelisti
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Va benissimo così, in una dimensione tra palco e realtà. Hai preso Paulo Dybala sconcertando i filosofi dell’ovvio, sconvolgendo le gerarchie angeliche, irridendo le teorie economiche da banco dei pegni su cui secondo volgari eloquenze si basa la sopravvivenza dei club calcistici, e che fai? Non lo mandi in scena, non ne sfrutti l’onda d’urto mediatica con uno spettacolo pubblico che metta insieme la Roma storica, quella del futuro e il tuo presente di società antica ma sbarazzina, prestigiosa ma sottovalutata, simpatica finché non alza la testa e pretende posti a sedere in luoghi che secondo la visione degli amici del giaguaro non le spettano?

Certo che lo fai, e anzi lo fai nello stile che vuoi imporre, ammiccante e personale, americano nelle dimensioni, italianizzante nell’eleganza, romanizzante nel vago profumo di orgoglio irriducibile pur se ferito che intendi diffondere: noi siamo espressione di qualcosa che c’era prima di voi, ha saputo attendere, è ancora qui e vanta crediti di qualche tipo nei confronti di chiunque. Nella storia in generale più che nel calcio, ma tutto si tiene. C’è un gigante che dorme e adesso si sta risvegliando, ve l’avevamo detto appena arrivati.

Stanno così le cose nella mente di chi organizza una dybalata come quella di oggi. E non c’è nulla da obiettare, siamo qui per divertirci. Alla gente piacerà: è una settimana che l’arrivo di Paulo alla Roma ha cambiato l’umore dei tifosi, anche dei più fiduciosi e ottimisti. Nulla illumina il cuore quanto un miraggio che si rivela concreto al tocco.

Per Paulo Dybala in persona, però, significa qualcosa di diverso. Di allegro e gratificante, come no. Ha accettato la Roma anche per questo. Per lo stipendio ancorché ridotto a miti consigli dalle vertiginose convulsioni di un secolo affollato, per le telefonate trasudanti carisma di Mourinho, per la solidità di un piano industriale centrato sulla crescita, per le acrobazie verbali e diplomatiche di un abile dirigente (diamo a Tiago Pinto ciò che è di Tiago Pinto). Ma pure perché si aspetta di trovare alla Roma un porto quieto. Non per riposarci la stanca chiglia: supponiamo gli abbiano spiegato per bene che cosa ci si aspetta da lui, in cambio di milioni e passerelle in gloria. Cercava un posto in cui tirare il respiro, sapersi amato, sentirsi ascoltato. E ripartire per nuove esplorazioni senza dover cambiare bandiera.

Non gli è andato tutto liscio in questa ricerca di tesori affettivi faticosamente conciliata con il desiderio di più materiali e venali riconoscimenti economici. Dai, lo fanno tutti: nessuno giudichi. Non è questo che ha scheggiato sinora la carriera di Dybala. È stata la mano del destino aiutata da una certa incompiutezza del giocatore e da un lieve sfasamento tra personalità e obiettivi, tra prospettive e illusioni. Via men che ventenne dall’Argentina, dove tutto era tranne che infelice, per diventare in Italia promessa già mantenuta, alba del calcio in costruzione. Posseduto dall’ansia di dover dare speranza a due movimenti sportivi leggendari, quello di Maradona e dell’allora fresco Messi da una parte e il nostro dall’altra, tamburino dei due mondi con inciso nel destino l’obbligo di diventare eroe.

Dybala è andato a tanto così dall’essere un giocatore assoluto, un top player come si usa dire oggi con orrenda sonorità e sinistri echi di contratti insostenibili e popolarità schiacciante. Era scritto che lo fosse quando è passato alla Juventus, all’epoca unica società italiana in grado di attirarlo, sedurlo e assimilarlo. Lungo la strada più ovvia, camminava verso le cime luminose della propria autoaffermazione. Ed era lì a un passo: in sette anni, altro numero che risuona di simboli, 115 gol, quanti Roberto Baggio. E il grado di vicecapitano, e la centralità sempre più accentuata, e la piena maturità in avvicinamento, e la tecnica sempre più elegante, finché non è arrivato Cristiano Ronaldo a oscurare il suo orizzonte. Nessuna immagine retorica: gli si è proprio piazzato davanti, colossale e ombroso. In una zona di campo troppo piccola per ospitarli entrambi. Così il passaggio per l’assoluto si è chiuso davanti a Dybala. Che non lo ha più ritrovato, spento com’era anche dagli infortuni e dallo scoramento.

Non è un lieto fine. E non è neppure una fine. Dybala a ventotto anni ha ricevuto in sorte l’ultima occasione di essere ciò che finora non è stato, ciò che persino la sua Nazionale ha atteso invano: l’uomo della provvidenza anche minuscola, lo spillo del compasso, il fulcro gravitazionale della squadra che gli ha teso la mano, non per bontà bensì per sano opportunismo. Dopo aver chiuso con la Juventus per questioni triviali come l’ingaggio e meno triviali come le incomprensioni, è giunto a una società in cui può presentarsi come un messia, sempre scritto minuscolo, ed essere creduto. Dove Cristiano Ronaldo può essere lui, ammesso che il paragone non gli dia l’orticaria. Dove il top player che incubava può manifestarsi. Dove gli organizzano una festa all’americana prima che ci sia qualcosa da festeggiare. Sulla fiducia. Questi siamo noi, adesso facci vedere chi sei tu.


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