Roma, tre minuti per José posson bastare

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Roma, tre minuti per José posson bastare© LAPRESSE
Alessandro Barbano
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Tre minuti per José posson bastare. Tre minuti di vera Roma, dopo una ripresa inguardabile. Tutto capovolto, azzerato, rimosso. L’urlo di Lukaku gonfia l’Olimpico, la sua tartaruga addominale esposta ai riflessi dell’ultimo quarto di luna è già lo stendardo del derby, di cui si sente il profumo. C’è ancora Mourinho in questo sortilegio che spacca il cuore dei tifosi. Fuori Aouar, dentro Azmoun. Fuori Karsdorp, dentro Zalewski. E il polacco affonda, come nessuno aveva provato a fare prima sulla fascia. Cambio di passo, e poi in mezzo ad occhi chiusi. Così si fa, finalmente. Per novanta minuti la Roma ha cercato di guardare il compagno da smarcare. E il compagno non c’era mai. Perché la sua macchinosa geometria è andata a sbattere contro il muro dei salentini. Stavolta no. Bastava un’accelerazione coraggiosa per capirlo, ma nessuno ci aveva provato. Zalewski lo fa, e Azmoun si ricorda che nel suo decennio da professionista ha già segnato centonove volte. Da ieri fanno centodieci.
Poi ci pensa Lukaku. Stavolta Mourinho non c’entra, e neanche Dybala, che pure lo chiama con un rasoterra ficcante. Perché la torsione con cui il belga risucchia il pallone e la giravolta con cui si prepara al tiro sono un capolavoro della volontà, che fa lo scudo del suo corpo tre volte più grande di quanto già non sia. Quando si gira d’autorità, ha già stabilito di segnare e nessuno può fermarlo, meno che mai i due ingenui marcatori del Lecce che si trova davanti.
Nove gol negli ultimi quindici minuti, quasi la metà dei ventidue realizzati in undici giornate, fanno della Roma un mistero stupendo. Che sia la prova di una forza d’animo o piuttosto un’incompiutezza dello spirito è per i tifosi giallorossi un quesito insolubile. Che però li tiene avvinghiati a questa ormai rituale attesa, penosa e dolcissima insieme, come tutti gli agrodolci ricatti di Mou. È la Roma più sofferente, più fragile, più indomabile, più audace che puoi attenderti. Perché il suo condottiero è rimasto solo nel campo del nemico, è sceso da cavallo e combatte a mani nude, forte solo del suo azzardo calcolato. Non c’è la fiducia di Friedkin a sostenerlo, né la garanzia del contratto, che va ad estinzione. Mourinho è un Don Chisciotte visionario che risponde ai richiami della sua fama. Venderà cara la pelle, c’è da giurarci.
Il Lecce lo ha capito tardi. Si è illuso di poter domare i romanisti. Ha giocato come può giocare una provinciale di talenti catapultati in una sfida più grande di loro. Tanto brio e poca struttura, un’alchimia di cui il furetto zambiano Lameck Banda è la formula magica. È suo l’assist caparbio che offre ad Almqvist l’occasione del vantaggio. Ma la serie A è ancora una cosa seria, anche in tempi di declino come quelli che viviamo. Il Lecce, che ha fatto fino a quel momento la Roma, non fa in tempo a capire che la Roma finalmente ha deciso di fare se stessa. Per portare a casa il risultato, il Lecce dovrebbe tornare a fare il Lecce, chiudersi in un catenaccio impenetrabile, raddoppiando la marcatura su tutti i romanisti dalla tre quarti in avanti. Invece D’Aversa prova a difendere l’egemonia del gioco gettando nella mischia Strefezza e tenendo alto il baricentro della difesa. Quando arriva il primo contropiede vero di Zalewski, il sogno si spezza.
La Roma vince d’autorità, non per qualità. Ma Mourinho non ha mai fatto intendere di curarsene della qualità. La sua è un’estetica della sostanza. Si contenta di sapere, il portoghese, che Dybala è rimasto in campo novanta minuti, caracollando come un convalescente, ansimando come un vittimista. Ma tra una pausa e l’altra ha registrato quella straordinaria catapulta che sono i suoi piedini fatati. Stai a vederlo con il fiato sospeso mentre inventa un sombrero e un tiro di controbalzo, che pure svirgola la traiettoria ed esce al lato. È la prova generale. A Praga giovedì, e domenica nel derby forse lo vedremo come ci piace ricordarlo. E come piace a Mou.


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