Calciomercato Bologna, Donadoni: «Milan, ti direi sì. Orgoglio Bologna. Parma, che dolore»

Il tecnico dei rossoblù intervistato da Walter Veltroni: «Da giocatore scelsi la maglia rossonera: i sentimenti sono gli stessi. Buonsenso: il segreto dei rossoblù. Il calcio e gli interessi meschini...»
Calciomercato Bologna, Donadoni: «Milan, ti direi sì. Orgoglio Bologna. Parma, che dolore»© LaPresse
Walter Veltroni
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ROMA - Roberto Donadoni è stato un giocatore fondamentale nella evoluzione del calcio italiano. Si capiva che aveva testa buona, non solo piedi buoni. E quella testa, che racchiude non solo una idea di calcio ma una concezione della vita e dei valori, gli è tornata molto utile quando ha cambiato mestiere ed è diventato allenatore, uno dei migliori del nostro, in materia, tanto prolifico paese. La sua storia comincia in un piccolo comune italiano, seimilatrecentocinquantaquattro abitanti, tra Brescia e Bergamo. «Io sono l’ultimo di quattro figli. Mio padre, che se ne è andato tre anni orsono, ha fatto il contadino fino al servizio militare. Quando è tornato è stato assunto da una ditta di materiali ferrosi. Poi, come molti italiani, di quel tempo ottimista e aperto, ha messo su una sua impresa fatta di due camion. Era una persona riservata. Noi Donadoni siamo fatti così, non facciamo trasparire facilmente quello che abbiamo dentro. Quando ho cominciato ad affermarmi la sua soddisfazione la vedevo negli occhi più che ascoltarla dalle parole. Da ragazzo veniva a vedermi giocare ma non commentava mai. Tra noi non c’era bisogno, ci si capiva. Lo portai con me a New York ai Mondiali del 1994. A lui tutto quel cemento grigio faceva effetto, amava più il verde dei suoi campi e il marrone della sua terra. E anche nella Grande Mela non aveva perso le sue abitudini. Si alzava alle cinque di mattina e usciva ad aspettare che il mondo si svegliasse e lo raggiungesse».

Si ricorda un regalo che lei ha fatto a suo padre?
«Mi ricordo che quando giocavo nell’Atalanta e abitavo a venti chilometri da casa fui obbligato a prendere la patente. Allora lui mi regalò una Golf. Io nel tempo, a rate, gli ho restituito il prestito. Poi gli ho regalato io una macchina che gli piaceva. E’stata la sua ultima auto. C’è ancora, la usa mia sorella. Io continuo a parlare con lui. Un vecchio amico, nei giorni in cui morì, mi disse: “Tuo papà è sempre con te, non smettere di parlargli”. E io non ho smesso. Ho imparato che i veri valori della vita non sono quelli che rincorriamo affannosamente. A inseguirli, tanto materiali quanto effimeri, si perdono quelli fondamentali, profondi, che fanno migliore la vita».

Cosa è stato, nella sua storia personale, il calcio?
«Quando cominciai, come tutti quelli della mia generazione, con un oratorio, un campo e una porta fatti con i pali della luce segati ad arte, per me il calcio era l’unico sfogo del mio paese, l’unico modo per stare insieme e divertirci, tra noi ragazzi. Non è cambiato, nel tempo. Io non mi sono dato obiettivi di carriera, non pensavo certo di giocare nel Milan o in Nazionale, quando correvo appresso al pallone a Cisano Bergamasco. Il mio metodo, figlio della cultura e del carattere familiare, era fare il meglio che potevo, farlo con serietà e rigore. Ed era sfidare me stesso a superare i miei limiti. Ma, in fondo, per me così poco loquace e forse un po’ timido, era anche un modo di esprimermi. Il calcio, in fondo, è stato un mezzo per comunicare ciò che avevo dentro».

Se posso dirle lei ha sempre trasmesso, almeno a me, un’idea di intensità e malinconia abbastanza unica nel suo mondo.
«No, è una definizione che non mi corrisponde. Io, con le persone che amo non sono affatto malinconico. Tendo a conoscere bene gli altri, prima di mostrarmi davvero come sono. E forse la tv, da questo punto di vista, inganna. Io sono aperto con gli altri e, lo so, per questo ho preso tante cantonate. Ma non riesco a cambiare. Se lo facessi sarei davvero malinconico. Esterno poco, ma la gioia di vivere è davvero tanta».

Quali sono stati i momenti più belli e più brutti della sua carriera?
«Momenti non calcistici. Come quando morì mio padre e io mi sentii smarrito e avevo un po’ perso il desiderio di fare ciò che sentivo. O quando finì il mio primo matrimonio e dovetti lasciare mio figlio piccolo. Quelle sono ferite dure da rimarginare. Poi ebbi un grave trauma in una partita internazionale, con la Stella Rossa: frattura della mandibola, coma... Ma ricordo in quell’ospedale persone che soffrivano certo più di me ma non smettevano di confortare chi stava loro vicino. Anche il dolore insegna a vivere. Da calciatore, certamente, il rigore sbagliato nella semifinale con l’Argentina. Ero mortificato per il dolore che avevo provocato in milioni di italiani ma da professionista sapevo, razionalmente, che poteva accadere. Che era accaduto a campioni assoluti, che sarebbe accaduto ad altri. Anche gli sbagli rendono le cose belle. La perfezione non esiste e sarebbe noiosa. Fu doloroso, molto. Ma lo superai».

Lei con i rigori ha un brutto rapporto...
«Non me ne parli... Quando parlano della “lotteria dei rigori” mi viene da sorridere. Da ragazzo feci un torneo giovanile in cui vinsi il premio come miglior giocatore e sbagliai in finale non uno ma due rigori. Perdemmo ai rigori nella finale dell’Europeo Under 21 del 1986 con la Spagna. E poi ai mondiali del 1990 e del 1994 e, da allenatore, nei quarti dell’Europeo del 2008 sempre contro la Spagna. Una maledizione. Ma, per come sono fatto io, se si arriva ai rigori vuol dire che si era a un passo da un grande risultato...».

Si ricorda il suo esordio in serie A?
«Vagamente... Mi pare fosse contro l’Inter a Bergamo. Mi ricordo solo che, nel tunnel, prima della partita, correvo come un matto su e giù. A un certo punto mi sono fermato e mi sono detto: “Ma che diavolo fai? Sei nella tua città, con la tua maglia, stai per esordire in A, contro l’Inter e vuoi arrivare in campo spompato?”».

[...]

Le piacerebbe allenare il Milan, un domani?
«Come potrei risponderle di no? Da giocatore scelsi il Milan, avendo altre, autorevoli possibilità. I miei sentimenti sono gli stessi, non sono cambiati».

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