Pogba, giustizia senza misura

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Quattro anni di squalifica per un atleta che ha trent’anni equivalgono alla radiazione. Tanti ne ha chiesti la procura antidoping. Ma una simile severità su che cosa poggia? Nella lente del diritto ordinario quella di Pogba è poco più che una responsabilità oggettiva. È risultato positivo al testosterone, e tanto basta. Un presunto colpevole. A cui è concessa la scorciatoia del patteggiamento, che dimezza la pena. Ma per un calciatore della sua età lo sconto di due anni è quasi irrilevante. Normale che Pogba lo abbia rifiutato. Anche perché patteggiare vuol dire ammettere una responsabilità. Mentre il francese si proclama innocente e invoca l’assunzione inconsapevole dell’ormone contenuto in un integratore prescrittogli da un ginecologo statunitense e assunto all’insaputa della Juve. 

Il fatto è che nel diritto del doping l’accusa è già una presunzione di colpevolezza e l’onere della prova contraria incombe sull’imputato. È questo un sovvertimento feroce delle regole della civiltà giuridica, giustificato dalla necessità di contenere un fenomeno come il doping, pericoloso per la salute e in grado di alterare la competizione sportiva. 

Ma Pogba ha forse commesso una simile slealtà? Si è dopato per aumentare qualità e quantità della prestazione in coincidenza con una gara? Niente di tutto questo. Il fuoriclasse juventino ha preso un integratore mentre era nel cuore di una lunga e travagliata convalescenza, il cui epilogo era ancora tutto da venire. Per qualunque motivo lo abbia fatto, se cioè consapevolmente o piuttosto in maniera involontaria, il suo doping non ha influito sulla prestazione di un atleta in attività, né ha falsato o condizionato il risultato sportivo di una competizione. 

Che c’entra questo? C’entra, perché le norme che sanzionano la libertà di un individuo – e la libertà di gareggiare è pur sempre una libertà vitale – dovrebbero rispondere a un criterio di offensività. Vuol dire che la pena è sempre in rapporto con il bene protetto dalla norma che il comportamento vietato ha colpito. Una sanzione di quattro anni si giustifica se il doping volontario ha falsato un campionato. È assurda se riferita a un comportamento che nulla ha a che vedere con il risultato di una competizione e riguarda piuttosto il decorso di un infortunio. È incredibile che una differenza così macroscopica non venga considerata e debitamente valutata dal codice sportivo. 

Una giustizia senza misura, che colpisce la mera violazione formale di un divieto e presume la colpevolezza come scontata, costringendo l’imputato a una confutazione diabolica, cioè impossibile, delle prove così costruite, coincide con l’ingiustizia, cioè con il suo contrario. Con l’effetto di sfilare le scarpette dai piedi fatati di uno dei più grandi talenti del calcio mondiale. Che brutta notizia. Che brutte regole. Che brutti giudici!  

 


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