Berlusconi e Sacchi da esempio per De Laurentiis e Spalletti

Leggi il commento al rapporto speciale tra lo storico presidente del Milan e l'allenatore di Fusignano
Berlusconi e Sacchi da esempio per De Laurentiis e Spalletti© LaPresse
Alberto Polverosi
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Non c’è una data certa del giorno in cui Silvio Berlusconi cominciò a pensare ad Arrigo Sacchi, ce n’è però una sicura in cui capì che sarebbe stato lui, l’Arrigo da Fusignano, a sedersi sulla panchina del Milan. Era il 25 febbraio 1987, andata degli ottavi di finale di Coppa Italia, Milan-Parma 0-1, gol di Mario Bortolazzi, uno dei giocatori più sacchiani e sacchisti dell’epoca. Per la cronaca, 0-0 al ritorno e Milan eliminato da una squadra di Serie B. Non si trattò della fusione di un pensiero, nemmeno della combinazione di due simili filosofie. No. Quello che accadde al Milan, e come conseguenza al calcio italiano, nacque dall’incrocio di due identiche visioni. Con Berlusconi e Sacchi il nostro calcio imboccò una strada su cui tutti si affacciarono, alcuni rimanendo diffidenti sul marciapiede, altri prendendo entusiasti la scia di un movimento rivoluzionario, anche se negli anni a seguire faceva tendenza mostrare la tessera di iscritti al “sacchismo”.

Il giuoco di Silvio

La missione, come la chiamava Silvio, non era vincere e basta (“vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, era ed è lo slogan juventino di Boniperti), ma vincere giocando bene, dominando, imponendo il proprio gioco agli avversari. Venivamo da un’altra epoca, da un altro stile. L’Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera aveva conquistato l’Europa e il mondo con difesa e contropiede, il principio fondamentale del calcio italiano; la Juve nel ‘77 aveva conquistato la Coppa Uefa con un centrocampo di forza atletica con Furino, Tardelli e Benetti; la Nazionale nell’‘82 era diventata campione del mondo con l’astuzia di Paolo Rossi, la tecnica di Bruno Conti, la classe di Antognoni, l’eleganza di Scirea, la gelida tranquillità di Zoff e il pragmatismo di Bearzot. Era stato bello anche così. Molto bello. Il calcio italiano era nei giocatori, il calcio di Berlusconi e Sacchi diventò il gioco. Anzi, il giuoco. Il Milan che i due costruirono insieme ad Adriano Galliani, sintesi perfetta di presidente e allenatore, sbalordì il mondo e travolse i nostri vecchi schemi. Nell’ultima pagina di un vecchio libretto che aveva scritto quando era allenatore della Fiorentina Primavera, Arrigo ricordava i giorni trascorsi, nei suoi viaggi in Olanda da rappresentante di scarpe, ai bordi del campo di allenamento dell’Ajax: “Dopo aver visto quella squadra, nel calcio niente sarà più come prima”.

La mano di Berlusconi

Andò esattamente così, dopo il Milan niente fu più come prima nel calcio italiano. C’era la mano ferma di Berlusconi, c’era la sua visione, la sua mission. Silvio ha continuato a vincere anche con i successori di Arrigo, con Capello, Ancelotti (il suo Milan dei numeri 10 per chi scrive è stato il più appassionante del trentennio berlusconiano), con Zaccheroni e Allegri, ma era stato il connubio con Sacchi a dar vita all’epopea di fine anni Ottanta. Pensando quarant’anni dopo a quel calcio, a quella storia, a quella leggenda si fatica a rivedere nel calcio di oggi una sintesi fra presidente e allenatore tanto perfetta da spingere l’immaginazione (la visione) oltre i risultati. Berlusconi&Sacchi non è una coppia irraggiungibile, è irripetibile. Con un po’ di sforzo, superando i bastioni della fantasia, ci vengono in mente De Laurentiis e Spalletti per quanto ci hanno mostrato in quest’ultima stagione. Anche il Napoli ha vinto dominando col gioco, anzi, prima ha dominato e poi ha vinto. Però Sacchi rimase al Milan quattro anni, con uno scudetto, una Supercoppa Italiana, due Coppe dei Campioni, due Supercoppe d’Europa, due Coppe Intercontinentali. Forse il Napoli e Spalletti non sarebbero arrivati a tanto, ma quanto meno valeva la pena provarci. E invece Berlusconi&Sacchi resterà irripetibile.


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