“Stringentemente” in confusione 

“Stringentemente” in confusione © Juventus FC via Getty Images
Alessandro Barbano
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C’è qualcosa che illumina e che spaventa nel parere con cui il Comitato tecnico-scientifico apre agli allenamenti collettivi dei calciatori, con una quantità di paletti e di prescrizioni che sembrano allontanare anziché avvicinare la ripresa del campionato. È racchiuso in un avverbio inesistente nella lingua italiana: “stringentemente”. I virologi lo coniano ad hoc, per richiamare la responsabilità dei medici dei club al rispetto delle misure di quarantena volontaria. Avrebbero potuto usare “rigorosamente”, oppure “tassativamente”, ma anche “obbligatoriamente”, “inderogabilmente”, “categoricamente”, e perfino “necessariamente” o “assolutamente”. C’erano decine di parole adatte alla bisogna. Invece no. Hanno impastato tutta la pedanteria che avevano nel loro inestetico dizionario mentale per sfornare il più brutto, il più burocratico dei neologismi. Ma “stringentemente” non è uscito per caso: è un termine che esprime nella forma più materiale l’idea che il rispetto delle norme debba essere ristretto in un obbligo fisico. E siccome le parole significano sempre più di quello che dicono, l’avverbio spiega tutta la strategia segregazionista e securitaria che questo sinedrio di sacerdoti-scienziati ha dettato e imposto al Paese.

Le chiamano in premessa considerazioni medico-scientifiche, ma di scientifico hanno poco o nulla. I consulenti del governo parlano come se fossero un po’ i commissari dell’esame di Maturità e un po’ i magistrati di un’Authority a cui sono stati delegati il controllo e la tutela della democrazia. Intrecciano in libertà bocciature di merito con valutazioni politiche, considerazioni sociologiche con raccomandazioni etiche. Senza pensare di dover motivare i loro giudizi. Dicono per esempio che il protocollo della Federazione gioco calcio è «largamente lacunoso e imperfetto» e che «non si sono avuti riscontri adeguati ai rilievi sollevati», ma non spiegano perché. La loro altezza scientifica non giustifica motivazioni. Bisogna fidarsi. Riconoscono poi «l’importanza anche sociale che questo sport riveste». Meno male. Ma che c’entra questa considerazione con la valutazione scientifica del rischio covid nel calcio? C’entra, invece. Perché l’importanza sociale del calcio, per i sacerdoti-virologi, non giustifica nessuna risorsa sanitaria pubblica.

Qui il picco di burocratese merita la parafrasi: «La realizzazione dei test molecolari sulle persone interessate alla ripresa degli allenamenti - leggi tamponi sugli atleti - non devono minimamente impattare - il plurale del verbo è un errore di sciatteria - sulla disponibilità del reagentario - leggi dotazione di reagenti chimici - da dedicarsi in maniera assoluta ai bisogni sanitari del Paese». Vuol dire che i tamponi non solo devono pagarli le società, come la stessa Figc ha assicurato, ma saranno garantiti ai calciatori solo dopo tutte le altre categorie del Paese, di cui evidentemente - a detta degli scienziati - il calcio non fa parte.

Ora, potrebbe darsi che lo sport più amato dagli italiani non abbia la dignità per rientrare nella ristretta cerchia delle passioni ammesse alla Fase due. Ma che siano gli scienziati a stabilirlo, e non la politica, vuol dire che l’Italia non è più una democrazia parlamentare, ma un’autocrazia scientifica. Che valuta, limita, prescrive e poi concede sì l’ultima parola all’Istituzione. Ma lo fa con una delega di cui non ci sarebbe bisogno, poiché non è richiesto a chi dà un parere anche di stabilire chi debba decidere. E invece gli scienziati, nel «lasciare la decisione finale nel merito al Ministro competente», sembrano voler investire Spadafora di una potestà che nel frattempo il premier Conte ha avocato a sé, e che forse il Parlamento dovrebbe, se non approvare, almeno discutere. Così la delega del Comitato tecnico a Spadafora assume un significato quasi freudiano, mostrando l’inconsapevole arroganza di un sapere che ormai si è fatto e si percepisce potere.

E siccome ogni potere vive di ambiguità, anche il quesito più decisivo di tutti resta un mistero, affinché ciascuno possa interpretarlo a modo suo: che succede se un calciatore, durante gli allenamenti collettivi, e poi in campionato, risultasse positivo a un tampone? Ipotesi uno: si fermano gli allenamenti e tutti sono messi in quarantena per quattordici giorni. Ipotesi due: i compagni del contagiato sono sottoposti a due tamponi in 48 ore e, se negativi, tornano ad allenarsi su decisione del medico sociale. Ipotesi tre: l’ultima parola la prende un burocrate, cioè il medico dell’Asl competente, che potrebbe attenersi o piuttosto derogare all’obbligo di quarantena lunga, dettata il 21 febbraio dai virologi al governo e contenuta in un decreto del presidente del consiglio. Affinché il futuro del calcio sia fino all’ultimo avvolto in una nube di incertezza.

Indovinello finale: quale ipotesi, caro lettore, ha suggerito il comitato tecnico nel suo parere? 


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