Si può criticare Pelé? Me lo chiesi quando un pomeriggio estivo del '93, davanti a un bel mare, Pavarotti mi mandò garbatamente a quel paese nonostante avessimo un ottimo rapporto. Subdolo, mi aveva chiesto cosa pensassi della sua ultima esibizione al Pavarotti & Friends. E io, coglione: «Un successo, come sempre, ma quella cantata in playback…». Senza neppure alzarsi dalla poltronciona chiamò Lella, la sorella fedelissima: «Il direttore ha molti impegni e vuole salutarti…». Salutai lei e lui. Non mi parlò più.
Quando spiegai a Pelé perché il “Guerin” aveva indicato Alfredo Di Stefano come il più grande calciatore di tutti i tempi, lui non fece una piega e firmò l’insolito intermezzo con il solito sorriso, sicuro di essere il migliore nonostante quella sentenza che neanche capiva e per la quale il settimanale calcistico brasiliano “Placar” aveva duramente polemizzato mentre gli argentini del “Grafico” avevano abbozzato perché in fondo (in fondo?) Di Stefano era purissimo argentino di Barracas.
La spiegazione, dunque. Arrivò a Napoli Maradona, nel giugno dell’84, e un artista locale, Bruno Lanza, compose un motivetto che diventò prima un tormentone poi una sentenza: “Maradona è megl’e Pelé”. E allora decidemmo di fare un referendum internazionale, convocammo una dozzina di importanti giornalisti sportivi di tutto il mondo e gli chiedemmo di dirci chi fosse il più grande. Pelé non vinse - e se ne fece sorridendo una ragione - perché non aveva mai giocato in una squadra europea, come dire che non aveva assaggiato il duro pane delle difese come quando, nel ‘66, Bulgaria e Portogallo lo avevano fatto fuori a calcioni dal Mondiale inglese. (Se ne sarebbe accorto Diego, il 24 settembre dell’83, quando Andoni Goikoetxea gli ruppe una caviglia in tre pezzi).
Pelé fece anzi di tutto per non inimicarsi - ad esempio - gli italiani quando girava come un globtrotter per arricchire il Santos e il Brasile. Il 12 maggio del ‘63 gli oroverde giocano a San Siro contro l’Italia, lo marca il Trapattoni milanista che non gli fa vedere palla e diventa per questo famoso ma onestamente confessa: «Pelé era stirato, non stava in piedi, non dovetti fare neanche un fallo, uscì dopo mezz’ora…». Torna con il Santos nella “sua” Riccione il 20 giugno del ‘67 per un’amichevole con il Venezia dopo avere “assaggiato” il Mantova e il Lecce: i brasiliani vincono ma Pelé viene oscurato dal riminese Sergio Santarini che si guadagna immediata fama e Serie A.
Passano gli anni e - come ho già raccontato - ci incontriamo nell’estate del ‘71 a Toronto, a Montreal e a New York per un torneo con il Bologna di Savoldi, il West Ham di Bobby Moore e appunto il Santos. Ci vediamo spesso, si vive negli stessi hotel, accetta di far quattro chiacchiere mentre rinasce sotto le mani del massaggiatore, mi spiega che lui è la banca del Santos, l’incasso milionario garantito, un ex povero negro emancipato che continua a lavorare come un negro (quando disse quella parola, nel 2004, a Milano, alla presentazione del suo ultimo film, molti si scandalizzarono, soprattutto le signore, lui capì e sorrise). Poi andiamo a Montreal, si gioca Santos-Bologna e l’ardito rossoblù Mauro Pasqualini - ala destra, non difensore - gli si mette addosso, gli fa prima un dribbling poi un tunnel, Pelé prima si ferma poi lo insegue, temiamo voglia menarlo, dargli uno schiaffone al ragazzaccio maleducato; e invece lo ferma, si toglie la maglia e gliela regala accennando un applauso. Questo è Pelé il generoso. Quando ripenso a quell’episodio mi vengono in mente gli Harlem Globetrotters, attori più che campioni, mi convinco che il Pelé sconfitto faccia parte dello spettacolo. Ma è così sincero, sereno, sorridente… Poco europeo, nonostante la passione di Angelo Moratti che quasi l’aveva in pugno. Massì, Pelé si può criticare. Quasi piangendo perché non c’è più.