Il caso Chelsea e i club ambiti (solo quelli top)

Il caso Chelsea e i club ambiti (solo quelli top)© Getty Images
Alessandro F. Giudice
6 min

L’acquisizione del Chelsea per 5 miliardi di euro, in un’asta gestita dal governo britannico, potrebbe avere effetti dirompenti nel riprezzare i valori di un’industria da sempre alle prese con una certa opacità dei riferimenti in termini di valore finanziario. La cordata che si è aggiudicata i Blues ha in Todd Boehly il volto più noto ma è sostenuta, per oltre metà, dal fondo di private equity Clearlake Capital. Boehly è un imprenditore americano che attraverso la sua holding possiede business molto diversi, tra cui il 20% dei Dodgers e il 27% dei Lakers.  

Clearlake è un fondo americano da 75 miliardi di dollari privo di asset sportivi in portafoglio, di cui si stima il rendimento tra il 36% e il 54% medio annuo. Con buona pace di quanti considerano indispensabile caricare di debito una società per acquisirla, non una sterlina di indebitamento finirà nel Chelsea anche perché il governo UK pone condizioni precise imponendo una specifica clausola che sbarra la strada ad acquirenti a leva (Lbo) come i Glazer che acquistarono lo United.  

Non è la prima volta che un club raggiunge valori simili (il fondo SilverLake acquistò il 10% del City per 500 milioni di dollari nel 2019) ma l’operazione è destinata a cambiare molte valutazioni. Isolando infatti solo il prezzo di 3 miliardi di sterline (i restanti 1,25 miliardi sono gli investimenti che l’acquirente si impegna a riversare, nei prossimi anni, sullo sviluppo del club e delle infrastrutture) la valutazione del Chelsea atterra a 7,5 volte i ricavi. Per di più, trattandosi di un’asta pubblica con diversi concorrenti, la formazione del prezzo riflette certamente in modo trasparente il valore assegnato oggi dal mercato al club londinese. Club quotati su listini pubblici hanno valutazioni nettamente inferiori: a esempio il Manchester United (4,4 volte) o la Juventus (meno di 2) tanto che la valutazione del Milan (4,5 volte) aveva destato stupore.  

Tutti gli algoritmi fin qui utilizzati per misurare il valore dei club sembrano inadatti alla realtà che pare materializzarsi: l’arrivo nel calcio di importanti compratori finanziari in cerca di asset la cui rarità (o unicità) produce un effetto-scarsità che ne fa salire il prezzo. Se si tratti di una bolla potrà dirlo il tempo: la valutazione di un’azienda è un’arte più che una scienza. Per quanto sofisticati, gli algoritmi sono talvolta smentiti dall’equilibrio tra domanda e offerta. Uno dei più seguiti - quello della società internazionale Kpmg - stimava in 1,8/1,9 miliardi di euro l’enterprise value del Chelsea: la metà del prezzo realmente pagato. Lo stesso modello stima un valore doppio per la Juventus rispetto a quello espresso dal mercato, mentre il valore attribuito al Milan (405-449 milioni) è un terzo di quello incorporato nelle proposte esaminate da Elliott. Uno degli algoritmi più seguiti dal mercato è (meglio dire: era) quello elaborato dall’economista Tom Markham. Esso ricorre a una formula empirica in cui il valore di un club è influenzato positivamente da ricavi, valore contabile degli asset, utili e capacità di riempimento dello stadio, mentre è inversamente correlato al rapporto tra costo degli ingaggi e ricavi. Tutto ragionevole ma già in passato si obiettava che il modello trascurava elementi oggi importanti come la base di fan (misurata dal numero di follower), le vittorie (soprattutto internazionali), il mercato di riferimento (misurato dalla dimensione complessiva dei diritti tv negoziati dalla lega di appartenenza). Tutti parametri oggi insufficienti a catturare la dinamica in atto (domanda e offerta).  

Perché i club risultano improvvisamente tanto appetibili agli investitori finanziari, in particolare i fondi e soprattutto americani? Occorre tenere presente che nella diversificazione di un portafoglio, è utile inserire asset che ne abbassino la rischiosità complessiva. In finanza, il rendimento di qualsiasi investimento va calibrato in funzione del rischio, dunque la minore variabilità dei rendimenti migliora la qualità delle prestazioni. Perché i club abbassano il rischio di portafoglio? Perché sono business in grado di generare flussi di cassa stabili nel tempo: gli incassi da stadio sono prevedibili, così come i diritti tv garantiti da fideiussioni che le emittenti rilasciano alla lega di appartenenza. La partecipazione alle coppe è incerta ma i top club raramente ne restano fuori mentre i ricavi commerciali sono assicurati da contratti di sponsorizzazione di durata pluriennale. Non è quindi un business difficile da prevedere perciò piace molto agli investitori.  

Non tutti hanno però ragionevole sicurezza di partecipare alle coppe (o di vincere) e non tutti dispongono di brand capaci di generare ricavi stabili negli anni. Assisteremo quindi, probabilmente, a una polarizzazione tra top club sempre più ricercati (il cui valore crescerà a dismisura) e club di seconda fascia che faticheranno a seguire l’onda. 

In questo scenario è facile che deal come il Chelsea spostino in alto tutte le valutazioni e che la marea porti a galla pure le barche in secca. Possibile che Zhang, a esempio, segua l’evoluzione degli eventi sperando di trovare un compratore per l’Inter, oggi lontana dai prezzi che gli consentirebbero di uscire con qualcosa in mano (dato il debito elevato in capo al club e alla controllante). Ma anche il Milan, oggi appetito da investitori mediorientali e americani, potrebbe uscire dal mercato se Elliott riterrà che i prezzi di mercato possono crescere, trainati dalle operazioni più importanti. Se un’onda trascinerà al rialzo tutti i valori calcistici (come l’acquisto di Neymar spostò al rialzo i valori di tutti i calciatori) forse non è il momento giusto di vendere.  


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