Roma, e se provassimo a sognare Dybala?

Dybala© ANSA
Giancarlo Dotto
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E se dicessimo Paulo Dybala? Chimera? Fantasia che più audace non si può? Sogno di una mente malata? Sta di fatto che se avessimo detto o pronosticato José Mourinho solo un anno fa sulla panchina della Roma saremmo stati tacciati di ben peggiore insania e propensione al delirio. Sta di fatto che Mou, contro ogni ragionevolezza, s’è fatto carne, ossa e verbo, è qui tra noi, prima osannato e poi contestato e vituperato, si capisce, stiamo a Roma, inevitabile. Sta di fatto che il suo arrivo a Trigoria rientra a pieno diritto nella categoria dei “sogni realizzati”. Dirò di più, dei sogni nemmeno concepiti o concepibili, nemmeno nella più clamorosa tempesta di stelle cadenti.

E allora, perché no? Sogno chiama sogno come nelle notti di mezza estate o di mezzo inverno del Bardo inglese che, del resto, sceglieva spesso l’Italia per le sue lussuose scorribande oniriche. Detto che da sempre il tifoso romanista è per distacco nel pianeta quello più disponibile al sogno, un po’ per inclinazione naturale, un po’ perché a furia di tirare la cinghia, scarseggiando medaglie, coppe, trofei e qualunque altra testimonianza di una grandezza reale, riparare nella grandezza dei castelli in aria è l’unica salvezza (“patologica” dirà qualcuno, la sponda laziale di sicuro, “salutare” diranno altri, diremo noi, meno inclini a distinguere il confine tra realtà e sogno), perché allora non riprovarci?

Per almeno tre motivi, uno più infondato dell’altro, ma che insieme fanno una suggestione perfetta. Che suona anche bene. Chiamatela Joya. La suggestione e il sogno non sono forse la matassa del cinema? Eccoci dunque comodamente seduti e sognanti nel salotto di casa Friedkin e schermo in cinemascope. Primo motivo. Il più assurdo, dunque il più eccitante: si chiama Paulo. Occorre aggiungere altro? Sondate la gente romanista di più generazioni e fate i nomi di Francesco, Daniele, Rudi, Bruno e Paulo per toccare solo gli ultimi quarant’anni, non ci saranno equivoci su come completare.

Secondo motivo. Il sogno parte, non a caso, alla fine di un incubo. L’enormità surreale del 3 a 4 domenica all’Olimpico, forse la più brutale, incomprensibile e indigeribile sconfitta della Roma di sempre. José a fine partita non è un uomo, ma una ferita aperta. Trova però la forza e la lucidità di avvicinare Dybala, il più illuminato dei suoi carnefici di serata, per una dichiarazione di stima e forse di amore: “Mi piacerebbe tanto allenare un giorno un talento come te…”. Non sappiamo cosa gli abbia risposto Dybala e che significato attribuire al suo sorriso, se circostanza, gratitudine o, attenzione, qui il sogno divampa, la briciola di una tentazione che lo sciamano di Setubal avrebbe iniettato nella bella testolina dell’argentino.

Terzo motivo, e qui diventiamo prosaici al limite del greve. Dybala è in scadenza di contratto con la Juve. A oggi nessuno sa bene cosa frulli nella testa del ragazzo e di Jorge Antun, procuratore e amico di famiglia. Strette di mano, dichiarazioni d’intenti e accordi verbali nel mondo del calcio contano zero. Di fatto, non esiste nero su bianco per un suo futuro in bianconero. In casa Juve i conti pesano, il dubbio è palpabile.

La Joya guadagna dieci milioni l’anno. Sostenibile? Forse sì, se preso a costo zero. Servirebbe un colpo cinematografico. L’ultimo, preistorico scudetto della Roma fu anche e soprattutto la conseguenza di un colpo cinematografico, quello di Franco Sensi che, stufo di bagordi laziali, stanco di sognare, tagliò corto e porto a Roma l’“impossibile Batistuta”. Dino Viola fece lo stesso, venti anni prima, con Paulo Roberto Falcao. Giocatori contagiosi che spostano i destini di una squadra. Creano euforia tecnica e ambientale. Il resto è tutto nella testa del ragazzo. Nella sua disposizione a una vita da eroe piuttosto che da comprimario, alla Juve o all’Inter. Che, vincere a Roma, con la Roma, di questo si tratta. Eroi per sempre .  


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