Eriksen, ho ripensato a Morosini

Eriksen, ho ripensato a Morosini© EPA
Ivan Zazzaroni
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Un miracolo, il più autentico dei miracoli. La prima speranza nell’immagine che ha invaso il mondo, sorprendendoci e sembrandoci meravigliosa, dopo quelle terribili di infiniti minuti di angoscia e lacrime: Christian portato via in barella, la mano sinistra appoggiata sulla fronte e la destra al petto, gli occhi semiaperti. Il momento esatto in cui abbiamo capito che pregare aveva ancora senso. Eravamo milioni, qualcuno lassù ha saputo ascoltare. Il miracolo dal dramma. Quarantatreesimo del primo tempo, la più banale delle rimesse laterali: il pallone colpisce una gamba di Christian che si accascia, come fulminato. I compagni e gli avversari più vicini capiscono immediatamente che qualcosa di grave è successo. Il primo minuto. Cinque, sei, alla fine quindici. Piangono i compagni di squadra, mentre il ct Hjulmand, accosciato, ha lo sguardo pieno di preoccupazione e fisso sullo scudo umano formato intorno a Christian. Sabrina, la moglie, arriva sul campo e il capitano Kjaer la protegge in un abbraccio che non dimenticheranno. E piangono sulle tribune, come se il tanto atteso ritorno allo stadio dovesse esigere il prezzo più alto. Tifosi disperati, le telecamere si soffermano soprattutto sui danesi: Christian per il suo Paese è un simbolo. Il tempo scorre, e lui non dà segni di vita. Rapidi i soccorsi, il massaggio cardiaco è lungo ma insufficiente, si ricorre al defibrillatore, il corpo di Christian rimbalza sotto le scariche dello strumento che gli salverà la vita.

Ho, abbiamo ripensato a Piermario Morosini, a Marc-Vivien Foé, a Antonio Puerta, a Renato Curi, a tutti quegli atleti sconosciuti ai più che la morte l’hanno trovata giocando. E a Davide Astori, che probabilmente sarebbe ancora vivo se il suo cuore si fosse fermato in campo e non di notte, in una camera d’albergo. Tragedie come quella di Piermario hanno favorito il miracolo, imponendo l’obbligo del defibrillatore.

Poi - dicevo - la foto Getty. Seguita da flash illuminanti. S’è svegliato. Sta meglio. È tornata la luce nel buio che s’era creato anche dentro di noi, trascinati dalle feste azzurre a quell’attimo che sembra non essere vita, l’attesa di una palla, il vuoto senza avviso, non è una caduta, è un crollo. Viviamo da troppi mesi a contatto con la morte e alla morte abbiamo pensato, una tragica pagina di “nera” nella luccicante giostra europea. Un istante, sono i compagni di gioco che fanno muro per sottrarlo all’infame curiosità dei media e alla spaventata, addolorata reazione di altri compagni schiacciati davanti alla tivù. Un altro istante, e sono gli abbracci disperati e le lacrime allo stadio a invaderci di tenerezza. Cosa resterà della pandemia?, si chiedono i sociologi, più scienziati dei virologi. Saremo migliori? Le cronache familiari non confermano, anzi. Le cronache sportive, enfaticamente inutili, almeno stavolta trasmettono speranza. Un altro miracolo. Christian e il suo cuore ci hanno scossi nel profondo, unendoci prima nella paura e poi nel sollievo. Christian è un compagno, un figlio, un fratello: non appena ha potuto, ha invitato la Danimarca a vincere per lui. Ma non si può vincere due volte la stessa partita. 


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