ROMA - Non ci sono figli e figliastri, neppure le targhe alterne, di moda in una città divisa come Roma, buoni da una parte e cattivi dall’altra. «L’azzurro ci unisce» era lo slogan, forse non casuale, coniato a Coverciano in coincidenza delle ultime due partite di Nations con Inghilterra e Ungheria. L’Italia non può permettersi deroghe o distinzioni, come ha specificato il ct Mancini, appena salpato per un viaggio lungo quattro anni e un’impresa che dovrà proiettarci, oltre il Qatar, verso il Mondiale americano del 2026. Potrà centrare il traguardo solo costruendo un gruppo d’acciaio e una squadra a immagine e somiglianza dell’Europeo 2021. Non abbiamo Baggio, Totti e Del Piero. Neppure Rivera, Mazzola e Antognoni, in attesa che madre natura ci sveli nuovi talenti. Bisognerà ripartire dallo spirito di Wembley e da un’idea alta dell’azzurro. «La Nazionale va amata di più» ha spiegato Mancio a Budapest. Si riferiva non tanto ai club, decisi da sempre a tutelare il proprio patrimonio tecnico e spesso accontentati. Il ct parlava, in modo implicito, di comportamenti e di senso di appartenenza, della tendenza a fuggire, di infortuni lievi e ingigantiti. Non possono diventare la regola. Illuminante il caso pre-Lituania di Reggio Emilia, settembre 2021, con una decina di defezioni. Erano passati solo due mesi dal trionfo inglese e la Federazione, incassando lo smacco, chiuse un occhio o forse due.