Capello e il gol che ha solcato la storia

Leggi il commento sulla storia di Inghilterra-Italia e i successi azzurri a Wembley
Capello e il gol che ha solcato la storia
Roberto Beccantini
3 min

Ci sono gol che segnano la cronaca, e già non è poco, ma ce ne sono altri che solcano addirittura la storia, e allora vai con il censo dell’episodio e l’incenso di noi umili scribi. Il 14 novembre saranno cinquant’anni dalla rete con la quale Fabio Capello espugnò Wembley e una ridda di luoghi comuni. L’anticipo di un mese è legato al dettaglio, non secondario, che proprio questa sera, nel tempio rifondato sulle macerie del vecchio, avrà luogo un nuovo capitolo del romanzo tra Inghilterra e Italia. Pioveva, quella notte, e ruggivano in centomila. Gli azzurri di Ferruccio Valcareggi si difendevano come avevano imparato a scuola. Gomito per gomito, mischia per mischia. Al minuto 86 la fierezza del migrante spinse Giorgione Chinaglia a cercare gloria in una zona ambigua. Sul tiro-cross, che Peter Shilton provò goffamente a bloccare, si avventò il carrello basso dell’uomo di Pieris. Perché sì, l’istinto e gli ultimi rigurgiti di forza lo avevano guidato lì, tra le zolle del fatale o del banale. Dalla roulette uscì il fatale. Oggi parleremmo “di tapin”, nel Novecento ci facemmo bastare «sulla respinta difettosa del portiere». Nelle redazioni e nei bar si brindò per un paio di motivi: non avevamo mai vinto a casa dei maestri; e, al netto di una glassa di enfasi difficile da isolare e dominare, il risultato celebrò il riscatto di tutti i camerieri e pizzaioli che i tabloid di Londra avevano dileggiato con la penna del sarcasmo più becero.

La mano de Dios

E già che siamo in tema di Albione, non si può non citare la mano de Dios e il capolavoro “coast to coast” che Diego Armando Maradona inflisse all’England di Sir Bobby Robson, nei quarti del Mondiale messicano, sulle ceneri, ancora calde, del conflitto per le Falkland-Malvinas. La memoria non sempre è un lusso: spesso è una sirena che ulula alla luna dell’orgoglio ferito. «Lui mirò al cuore del capitalismo». Lui, Jürgen Sparwasser. Tedesco dell’est, di famiglia operaia, contro la tigna borghese di Sepp Maier, tedesco dell’ovest. Successe al Volksparkstadion di Amburgo, nella pancia del Mondiale del 1974, l’edizione che poi la Germania “ricca” avrebbe sfilato all’Olanda meccanica di Johan Cruijff. Era un derby, di qua la Ddr e di là un kaiser, Franz Beckenbauer, e un marxista, Paul Breitner. Persino Günter Grass scrisse di Sparwasser, del suo destro e della sua capriola, oltre che della propaganda che ci piacque agitare. Rimane la sentenza del campo, che la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, avrebbe reso epica: 1-0 per la costola orientale. «Le guerre sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono»: la massima di Pablo Neruda conduce al Cile di Augusto Pinochet, a un golpe sanguinario, a un 1973 di compromessi storici (in Italia, almeno). Affiora, dai racconti, il gol di Francisco Valdés, capitano della “Roja”, a una Unione Sovietica mai pervenuta per protesta. E così al Mondiale andarono i cileni. Stadio Nacional di Santiago: gente plaudente sopra, pile di cadaveri sotto e, in mezzo, la farsa di un attimo. Dai camerieri alle Ande.


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