Italia, se Spalletti si sente un rabdomante

Leggi il commento del Condirettore del Corriere dello Sport - Stadio
Alessandro Barbano
5 min

Chissà se Spalletti, definendosi con una metafora un rabdomante in un’intervista televisiva, sapeva di rischiare la millanteria. Perché la rabdomanzia è un metodo pseudoscientifico privo di prove. Non a caso chi pure lo pratica è, per il dizionario di Google, “colui che possiede, o presume di possedere, l’arte di scoprire la presenza di acqua o di metalli preziosi seguendo le vibrazioni di una bacchetta forcuta, tenuta orizzontalmente con le mani per le sue estremità”. I metalli preziosi, invisibili a occhio nudo e scoperti dal ct, si chiamano “Kayode, Ranieri, Koleosho, Casadei, Bove, Lucca, Prati e Calafiori”. Come l’oro e l’acqua nei terreni arsi dal sole, stanno sottoterra, o sottotraccia. Bisogna andarli a stanare in allenamento, o in quei rari spezzoni di partita che, grazie agli infortuni dei titolari, collezionano nelle loro squadre di club. Calafiori e Bove, che di questa pattuglia sono i più navigati, vantano una cinquantina di gare a testa, la maggior parte in Italia, gli altri non arrivano a venti. Eppure non sono adolescenti, trovandosi tutti a ridosso dei vent’anni, e qualcuno, come Ranieri, a ridosso dei venticinque. Un’età in cui i loro omologhi europei hanno già collezionato presenze ed esperienze in proporzione multipla.

È pensabile che l’allenatore della Nazionale, chiamato a difendere a giugno il titolo europeo, punti su uno di loro? In pochi scommetterebbero su una simile eventualità. Citandoli, Spalletti al più ha voluto indicare una prospettiva. Ma soprattutto lanciare una provocazione. Perché c’è un gap culturale che divide il calcio italiano da quello europeo. In Spagna il Real va a raccattare gli adolescenti di valore che trova in giro per il mondo e gli dà una maglia da titolare. In Inghilterra club come il City, il Liverpool e l’Arsenal fanno dei loro vivai fabbriche di campioni. Così accade che spuntino da un giorno all’altro stelle come Vinicius, Rodrygo, Foden, Alexander Arnold, Saka. Da noi, la Lazio che perde per infortunio Casale e Romagnoli si arrangia con Patric e Gila, ma Ruggeri, il gioiello della Primavera, resta in panchina. Sempre da noi, dopo aver osato con Bove, si ripiega subito sull’usato insicuro di Renato Sanches, Paredes o Aouar, condannando i talenti italiani a un destino di eterni esordienti. Perché qui il coraggio è al più azzardo, quasi mai investimento. Non è certo colpa di Mourinho, che pure ha lanciato diversi giovani, ma di una mentalità che si è imposta come una camicia di forza, finendo per condizionare anche gli uomini più illuminati. Con l’effetto di condannare il calcio italiano al declino.

In questi giorni molti dirigenti piangono la morte del Decreto Crescita, che - dicono - significa una perdita secca di cento milioni di risparmi fiscali all’anno. C’è da chiedersi però se quei risparmi non siano stati sperperati spesso per portare attempati campioni, invece di far nascere e liberare nuove risorse. Negli ultimi due decenni il calcio ha smarrito la sua vocazione manifatturiera, a vantaggio di una prospettiva tutta speculativa, che ha forgiato una classe dirigente tanto spregiudicata quanto priva di lungimiranza. Il resto lo ha fatto la doppiezza e l’ipocrisia della politica. Che, in uno scambio corporativo, al calcio ha riconosciuto privilegi e disconosciuto diritti. Sconti fiscali irragionevoli, invece di incentivi a valorizzare il suo patrimonio e i suoi vivai. Anche adesso che, in nome di una demagogia populista, si negano fondi pubblici per costruire nuovi stadi, nulla si fa per eliminare i vincoli che scoraggiano i privati a realizzarli con denaro proprio. È un gioco a perdere, in assenza di una visione. Che passa dal calcio al Paese e viceversa. E di cui la Supercoppa araba, per fare solo un esempio, sembra l’emblema. Una svendita commerciale che non vale alcuno sviluppo e toglie alla Nazionale una settimana preziosa. Condannando Spalletti a sentirsi un rabdomante.


© RIPRODUZIONE RISERVATA