Spalletti, i retroscena raccontati nel libro: quella volta che fece fermare il bus per un tifoso laziale…

Gli inizi in Toscana, la Roma e lo scudetto capolavoro con il Napoli: il ct azzurro racconta la sua storia nell'autobiografia scritta con Giancarlo Dotto
Fabrizio Patania

Trent’anni in panchina, 264 pagine per raccontare la storia e la complessità del personaggio Luciano Spalletti. Un lungo viaggio tra inquietudini e leggerezze illuminate dalla penna raffinata di Giancarlo Dotto. Dal legame con Totti all’addio controverso al Napoli sino ad arrivare al sogno di riportare l’Italia al Mondiale. L’autobiografia del commissario tecnico della Nazionale, edita da Rizzoli, esce questa mattina nelle librerie. Non mancano retroscena inediti legati al divorzio post-scudetto con De Laurentiis, ma si tratta soprattutto di un affresco umano, il ritratto di un uomo inafferrabile e tormentato, che ha costruito sull’amicizia e sui valori il suo percorso professionale. “Il Paradiso esiste... ma quanta fatica”. Il titolo riassume quanto di più caro e veritiero attraversa ogni giorno i ragionamenti di Lucio, disteso e realmente felice solo quando si trova su un campo di calcio o si immerge nel bosco di Montaione, a casa sua, non distante dalla natìa Certaldo. Dotto, per scrivere il libro a tempo di record, ha trascorso una settimana ospite del ct nel cuore della Toscana. La Rizzoli ieri ci ha consegnato in anteprima un estratto dei capitoli riservati alla Roma di Spalletti.

Spalletti, la diffidenza agli inizi con la Roma

«Quando arrivai, all’inizio della stagione 2005-06, mi trovai davanti a una squadra messa parecchio male, come prestazioni e risultati. Venivo dall’Udinese, meno che mai potevo pensare di fare richieste alla società. Nella mia testa c’era solo questa grande felicità di lavorare nella Roma, una felicità per la quale avevo rinunciato alla possibilità di giocare la Champions con l’Udinese. Un tifo, quello giallorosso, che somiglia a una religione. Una squadra piena zeppa di giocatori importanti: Totti, De Rossi, Panucci, Cassano, Perrotta, Montella, Damiano Tommasi, che avrei voluto incontrare prima, ma anche una squadra da rimettere a posto... L’anno prima avevano cambiato quattro allenatori, chiudendo ottavi. C’era una situazione di inevitabile anarchia, se non proprio di autogestione. L’autorità dell’allenatore era in crisi dalle parti di Trigoria e io, Luciano Spalletti da Udine, allenatore senza pedigree in una piazza che aveva avuto Liedholm e Capello, non ero certo colui che poteva determinare un’inversione di tendenza. Almeno questo era il pensiero di parte della tifoseria».


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L'invenzione di Totti centravanti

Lucio cominciò a tirare fuori il suo talento di alchimista del calcio, sempre capace di inventare una soluzione innovativa. «Volli subito conoscere Totti, che per me era il calcio. Gli parlai della mia idea: avvicinare la volpe al pollaio, dove lui era la volpe e il pollaio l’area di rigore. Totti fino a quel momento aveva giocato quasi sempre come trequartista, salvo la parentesi con Zeman che lo utilizzava da esterno sinistro, ma a me faceva gola la possibilità di farlo muovere più vicino alla porta. Calciava come nessuno, era una musica potente, palloni telecomandati all’incrocio dei pali, traiettorie visionarie che non potevi scrivere sulla lavagna».

L'incursore Perrotta nella Roma senza il 9

Totti centravanti diventò l’idea sublime di una Roma costruita senza il classico numero 9. «All’inizio fu molta salita. Quando in città cominciavano a diffondersi i primi mugugni, mi inventai un 4-2-3-1 che diventava 4-2-3-0, perché il centravanti era Totti, che spariva dal radar dei difensori. Un fuoriclasse immarcabile perché invisibile. Il punto era non dare riferimenti. In quella squadra, in cui il più forte era ovunque e in nessun luogo, avevo dei maestri dell’inserimento. Perrotta su tutti. Giocava mediano, ma io, dopo aver visto questo cavallino che sapeva inserirsi nei tempi giusti, pensai di usarlo diversamente. In seguito, all’Inter, avrei trovato in Vecino un analogo di Perrotta. Si assomigliavano molto, solo che Vecino ha bisogno di uno spazio definito e di binari predeterminati; Perrotta, per via del passo meno lungo, aveva più varianti nel suo calcio verticale. Bravissimi entrambi a finalizzare».


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Il retroscena sul bus fermato per il tifoso laziale

Spalletti imparò a conoscere cosa comportava lavorare nella Capitale. «Memorabili gli spostamenti in pullman da Trigoria all’Olimpico il giorno della partita. Due appuntamenti fissi lungo il tragitto. Il tifoso laziale alla finestra e la tifosa romanista in strada. Il primo ci aspettava per gridarci i peggiori insulti, facendo il gesto dell’ombrello. A un certo punto, la cosa ci venne a noia e decidemmo che era venuto il momento di dare una risposta esemplare. Dopo l’ennesima caterva di insulti, costrinsi l’autista del pullman a tornare indietro per via Della Giuliana fino ad arrivare sotto la finestra del tifoso laziale, inseguiti dalla scorta che non capiva cosa stesse succedendo. Quello, sentendo di nuovo le sirene della polizia, si affacciò e ripartì con il suo teatrino. Feci fermare il pullman, dissi ai giocatori di scendere e di rendere pan per focaccia all’esagitato. Funzionò. Il tipo si ritrasse dalla finestra. Scomparve e da quel giorno non lo rivedemmo mai più. Voglio comunque aggiungere che, balordi a parte, presenti in ogni tifoseria, da romanista ho sempre avuto il massimo rispetto per l’avversaria dell’altra sponda e per i suoi supporter». Un altro incontro resta scolpito nella sua memoria. «Un’anziana donnina, tutta bardata di giallorosso. Ci aspettava ogni volta a un angolo di via Cipro, che piovesse, grandinasse o battesse il sole, per salutarci festosamente e tirarci manciate di sale propiziatorio. Una volta feci fermare il pullman, scesi con Totti e le regalammo una maglia del capitano con dedica. Raramente ho più visto un volto di donna così illuminato dalla felicità. Lei mi piace pensarla ancora lì, che lancia il sale alla sua Roma».

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Trent’anni in panchina, 264 pagine per raccontare la storia e la complessità del personaggio Luciano Spalletti. Un lungo viaggio tra inquietudini e leggerezze illuminate dalla penna raffinata di Giancarlo Dotto. Dal legame con Totti all’addio controverso al Napoli sino ad arrivare al sogno di riportare l’Italia al Mondiale. L’autobiografia del commissario tecnico della Nazionale, edita da Rizzoli, esce questa mattina nelle librerie. Non mancano retroscena inediti legati al divorzio post-scudetto con De Laurentiis, ma si tratta soprattutto di un affresco umano, il ritratto di un uomo inafferrabile e tormentato, che ha costruito sull’amicizia e sui valori il suo percorso professionale. “Il Paradiso esiste... ma quanta fatica”. Il titolo riassume quanto di più caro e veritiero attraversa ogni giorno i ragionamenti di Lucio, disteso e realmente felice solo quando si trova su un campo di calcio o si immerge nel bosco di Montaione, a casa sua, non distante dalla natìa Certaldo. Dotto, per scrivere il libro a tempo di record, ha trascorso una settimana ospite del ct nel cuore della Toscana. La Rizzoli ieri ci ha consegnato in anteprima un estratto dei capitoli riservati alla Roma di Spalletti.

Spalletti, la diffidenza agli inizi con la Roma

«Quando arrivai, all’inizio della stagione 2005-06, mi trovai davanti a una squadra messa parecchio male, come prestazioni e risultati. Venivo dall’Udinese, meno che mai potevo pensare di fare richieste alla società. Nella mia testa c’era solo questa grande felicità di lavorare nella Roma, una felicità per la quale avevo rinunciato alla possibilità di giocare la Champions con l’Udinese. Un tifo, quello giallorosso, che somiglia a una religione. Una squadra piena zeppa di giocatori importanti: Totti, De Rossi, Panucci, Cassano, Perrotta, Montella, Damiano Tommasi, che avrei voluto incontrare prima, ma anche una squadra da rimettere a posto... L’anno prima avevano cambiato quattro allenatori, chiudendo ottavi. C’era una situazione di inevitabile anarchia, se non proprio di autogestione. L’autorità dell’allenatore era in crisi dalle parti di Trigoria e io, Luciano Spalletti da Udine, allenatore senza pedigree in una piazza che aveva avuto Liedholm e Capello, non ero certo colui che poteva determinare un’inversione di tendenza. Almeno questo era il pensiero di parte della tifoseria».


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