Le commissioni pericolose

Le commissioni pericolose© LAPRESSE
Alessandro Barbano
3 min

Una commissione esosa per concludere un contratto può drogare il mercato, ma è ancora una commissione. Una commissione perché un contratto non si concluda è invece un’altra cosa. A quest’ultima sembra riferirsi la denuncia del presidente della Salernitana, Danilo Iervolino, in un’intervista alla Gazzetta, quando racconta le ragioni del divorzio con il direttore sportivo Walter Sabatini. Un aumento sull’ingaggio di Lassana Coulibaly di appena duecentomila euro non giustifica una commissione cinque volte maggiore, cioè di un milione di euro. Se quella somma serve a far desistere il giocatore dall’offrirsi ad altri, si tratta di un prezzo per scongiurare un danno paventato che poco ha a che fare con le categorie del diritto privato, e troppo somiglia a una fattispecie penale. La prudenza impone di sospendere il giudizio, che, se mai, spetterà ad altre sedi. Però, che si tratti o no di un equivoco, questa vicenda dimostra quanto vischiose e intrasparenti siano le relazioni di mercato e quanto ambiguo sia il ruolo dei procuratori.
Un’economia esposta scopertamente al sotterfugio somiglia a una giungla, dove prima ancora dei più forti vincono i più furbi. Contro i quali le stesse regole servono parzialmente. Certo, un tetto sulle commissioni sarebbe un argine a forme di autonomia contrattuale che, con un eufemismo, potremmo definire atipiche. Ma non basterebbe. La bonifica del sistema impone uno scatto culturale ed etico che solo gli attori protagonisti possono compiere. Bisogna avere il coraggio di dire «No!», anche se il prezzo di un rifiuto comporta un danno o la rinuncia a un obiettivo di mercato.
Il calcio paga un prezzo enorme al clima di reciproca sfiducia che lo avvolge come una nube. Nella quale prosperano improbabili dirigenti, intermediari, factotum, ed esperti a vario titolo, che in qualunque altro settore economico sarebbero messi ai margini in poche settimane. E che invece qui continuano a proporsi, prima ancora di essere, come gli unici depositari degli attrezzi misteriosi per compiere l’impresa di una salvezza, o per sbrogliare una trattativa difficile. Sono sopravvissuti di un calcio della precarietà e dell’azzardo, che è ora di archiviare. Il loro millantato monopolio delle relazioni è pari alla delega in bianco che, ancora, con troppa generosità gli viene concessa e che, da abili comunicatori, vestono di leggenda. Anche con qualche indulgenza del giornalismo.
Di questi personaggi lo sport non ha più bisogno. Per questo la denuncia del giovane presidente granata ha il merito di rompere una consuetudine di subalternità già pagata a caro prezzo. Il risanamento del sistema è anzitutto una sfida culturale. Passa per una rivalità solidale tra i club, capace di sviluppare competenze robuste e relazioni specchiate. Fondate sulla fiducia e sul merito, non sull’esoterismo d’antan.


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