Figc e Serie A, è scontro totale: ecco cosa sta succedendo

La Lega chiede più autonomia e vuole sfiduciare il presidente federale Gravina, che ha però una maggioranza solida: tutti i dettagli
Giorgio Marota
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ROMA - La brace sotto la cenere è divampata in un fuoco di parole e accuse. Eppure, attorno al simbolico ring dove ieri si sono scontrati il presidente Figc Gravina e Claudio Lotito, patron della Lazio, consigliere federale, senatore e componente di spicco delle Commissioni finanze e bilancio, c’è un mondo di incomprensioni e divergenze istituzionali che gira da anni in direzione contraria ai reali bisogni di un sistema indebitato fino al collo.

Gravina nel mirino della Lega di Serie A

La Lega Serie A ha un obiettivo non dichiarato ma piuttosto evidente, conforme a qualsiasi forza di opposizione: far cadere chi è al potere, in questo caso togliere la poltrona al numero uno federale, che però è sostenuto da Lega Pro, dilettanti, calciatori, allenatori e arbitri. Durante i consigli federali, per intenderci, ogni proposta passa solitamente a larghissima maggioranza con voto contrario della A. Questo fronte, compatto pur con delle ovvie sfumature, mette insieme più dell’80% del peso elettivo. Ecco perché sfiduciare Gravina attualmente sembrerebbe un’impresa titanica. Eppure il 17% che sta in qualche modo prendendo le distanze, cioè la Serie A e in minima parte anche la B (unica ad astenersi sul piano strategico di riforma), rappresenta la locomotiva del sistema. E queste componenti, oltre ad accumulare perdite, portano anche i soldi di cui beneficia l’intero sistema sportivo.

Lo scontro tra Gravina e Lotito

Parlando di numeri, è proprio su quel 12% di peso politico che si incardina la posizione oltranzista della Lega. In via Rosellini vorrebbero più risorse e più voce in capitolo nelle scelte. Non a caso, da settimane il presidente Casini ha dato mandato a un pool di legali di studiare il cosiddetto “modello Premier” allo scopo di ottenere una maggiore autonomia. Come spieghiamo a parte, l’equazione “Inghilterra uguale indipendenza” non è affatto scontata. I consiglieri federali per la Lega, Lotito, Marotta e lo stesso Casini, e insieme a loro gran parte delle medio-piccole del campionato che vedono in Lotito un leader e sono la maggioranza politica in A, appaiono comunque stanchi di ritrovarsi ai margini delle scelte che contano. Quando Casini, durante l’audizione in Senato di due giorni fa, disse che «il modello attuale presenta arretratezza e fragilità come l’eccessivo accentramento di poteri in capo al presidente federale», si riferiva al fatto che il problema per le società di vertice sono gli equilibri di forza. Ieri ha inoltre precisato come il suo non fosse un attacco alla persona bensì al suo ruolo in generale, ma quelle parole hanno comunque scatenato una serie di reazioni fino al botta e risposta istituzionale nel quale Gravina ha parlato di «Lotitismo» e il senatore ha dato all’altro le responsabilità sulla crisi attuale del calcio. A proposito di riferimenti britannici: a più riprese il presidente Figc ha ricordato che la FA ha addirittura un diritto di veto sulle scelte della Premier, oltre alle difficoltà nell’applicare in Italia idee come l’autogestione sulle licenze nazionali a causa di leggi statali blindate.

Le crepe del calcio italiano

Nell’ultimo consiglio federale la Serie A ha votato “sì” alle riforme economiche per rendere il calcio più sostenibile, ma solamente perché i criteri ammissivi al campionato (indice di liquidità, indicatore di indebitamento e costo del lavoro allargato) sono stati applicati esclusivamente per B e C mentre la A ha ottenuto l’adeguamento ai parametri Uefa. Alcuni ordigni vengono periodicamente disinnescati, però ogni tanto esplodono. Citiamo due casi: nel 2022 la Serie A fece causa alla Figc proprio sull’indice di liquidità e i suoi tempi di applicazione, mentre giusto due mesi fa Inter, Milan e Juve, con il supporto della Roma, sono andate da Gravina in gran segreto per convincerlo ad applicare il format a 18 squadre con preoccupazioni sui calendari congestionati; una richiesta che il presidente si è guardato bene dall’esaudire, lasciando la decisione alla Lega. Le lotte intestine si stanno ripercuotendo pure sulla giustizia sportiva, con sovrapposizioni tra le competenze del giudice di A e della procura federale. Quando Mancini, dopo il derby, ha sventolato la bandiera biancoceleste con il ratto, il giudice ha chiesto gli atti alla procura pur essendo un episodio “non di campo”, poi ha preso la stessa decisione della questione “Acerbi-dito medio”: 5 mila euro di multa al calciatore. Mastrandrea - il giudice sportivo - avrebbe potuto lasciare che Mancini patteggiasse con Chiné come l’interista, ma ha preteso di decidere. Tutto legittimo in forma e in diritto, eppure certe precauzioni e certi fragili equilibri da rispettare sono esemplificativi. Il calcio italiano è come un palazzo pieno di crepe: prima o poi c’è il rischio che venga giù.


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