Sidio Corradi: “Motta come Bernardini: Bologna può sognare”

Ha vinto lo scudetto 60 anni fa e poi ha chiuso la carriera in Liguria: “Bologna-Genoa? Complicata per tutte e due”
Giorgio Burreddu
11 min

Ancora oggi, quando i giorni sono propizi, e il dolore dell’età gli dà tregua, Sidio Corradi lo scudetto del ’64 se lo porta dietro. «Ho conservato la medaglia, quella che ci mandò la federazione. La tengo attaccata a una collanina e quando sto bene la porto con me. Quello scudetto è una delle cose più belle che abbia visto in vita mia». Ha quasi ottant’anni, vive la Genova rossoblù da trentotto. Giocava all’ala, c’era anche lui sessant’anni fa.  

Cos'è rimasto di quello scudetto? 

«Più che altro siamo rimasti in pochi. Non c’è più nessuno. Ma sentimentalmente, per me, è rimasta una cosa talmente grande. Giocai contro la Fiorentina, febbraio del ’64. Debuttare in quella squadra di campioni è una cosa che mi porterò dentro fino all’ultimo respiro. Però è una cosa personale, di quello scudetto ormai ne parlano in pochi, Bologna a parte. È un po’ dimenticato». 

Lei che ricordi ha? 

«Bernardini, lo chiamavamo dottore. Era un signore di classe, di una intelligenza particolare. A Firenze fu tutto inaspettato. Ce la giocavamo io e Bruno Pace, io all’ala destra e lui alla sinistra. Era più giusto giocasse lui. Quel giorno invece il dottor Bernardini fece giocare me perché ero molto più incisivo con il piede inverso. Nello spogliatoio, prima della partita avevo una fibrillazione addosso, quasi me la facevo sotto. Entrai nel sottopassaggio, ero l’ultimo della fila. Avevi grande rispetto di quelli che già comparivano nelle figurine, io sulle figurine mica ci stavo. Bernardini andò da Bulgarelli, gli disse di prendermi e di portarmi vicino a Pavinato. Da quel momento lì ebbi una freddezza davanti a cinquantamila persone che non so. Cominciai a capire che se non mettevi grinta non potevi andare avanti nel calcio».  

E prima dell’Inter? 

«Fregene in ritiro. Il dottore venne in camera, la condividevo con Haller. Mi disse: “Avevo voglia di farti giocare, ma domani devo fare un brutto scherzo a Herrera”. Fece giocare Capra con l’11, un terzino all’ala. Infatti Herrera non ci capì niente. Io ci rimasi molto male, ma lo scudetto mi appagò. Ero diventato il calciatore più giovane a vincere uno scudetto. Avevo 19 anni, all’epoca si era ancora minorenni».  

Lei era nato nella miseria. 

«Sono venuto su a Porto Ercole, posti bellissimi, facevo il pescatore. A dieci anni andavo con le lampare. Ho patito la fame. Mangiavo riso e patate un giorno sì e l’altro pure. Questa è stata la mia infanzia. Mio padre Luigi e mia mamma Giorgia erano genitori di altri tempi. Lui padre padrone, mamma doveva fare figli e da mangiare. I figli maschi dovevano lavorare. Dopo tre femmine, io ero l’unico maschio. Papà non mi ha mai toccato con un dito, l’educazione e qualche schiaffone me li ha sempre dati mia madre. Ero un discolo, andavo a giocare nelle piazzette, rompevamo i vetri. Un signore portava le bombole del gas da Orbetello a Porto Ercole, mi vide giocare. Avevo tredici anni. “Vieni a fare un torneo a Orbetello, domani pomeriggio”. Dissi di sì. Pensavo: “Oh Sidio, ma alle 17, tu, domani, devi andare a pescare”. La notte non riuscivo a pensare ad altro. Francesco, che stava sulla barca con me diceva: “Ci devi andare, è un’occasione”. E la lampara? “Ma lascia stare”. Il giorno dopo andai, sei chilometri a piedi. Mi diedero le scarpe mezzo numero più corto. Vincemmo 11-0, feci 6 gol. Figurati l’entusiasmo. Sì, ma chi torna a casa stasera? Mi lasciarono sul portone, quando suonai erano le 10 di sera. Mi aprì la mamma e mi dette un ceffone. “Tuo padre ha detto che te ne devi andare via di casa”. E dove vado? Fui fortunato perché una zia mi prese in casa. Nei paesi era così: venivi marchiato come un vagabondo, uno che non voleva lavorare. A mio padre dicevano: “Non fanno niente questi calciatori, sono dei vagabondi”. Era meglio essere definiti figli di puttana. Si pensava che la lampara fosse il non plus ultra. Non era così». 

E poi? 

«Dopo cinque mesi mi chiamò mio padre, aveva una cirrosi epatica, beveva molto. Mi disse: “Vieni qui”. Aveva un filo di voce. Sapeva che il mio nome non mi piaceva. Mi disse: “Ricordati bene, questo nome era di mio fratello che è morto in guerra a 24 anni. Ti porterà fortuna”. Ho giocato anche per lui. Non ero sicuro di potercela fare, ma avevo questo carattere, avevo fame di pallone. E lo dico ai ragazzi: la fortuna passa per tutti, ma bisogna saperla prendere al volo». 

Quanto guadagnava da calciatore? 

«A Bologna mia mamma mi mandava una busta ogni due mesi con 500 lire. Lì mi davano da dormire e da mangiare. Per il mio debutto mi regalarono un vestito. Mi portarono a prenderlo da Vittadello. Me l’ero guadagnato. Il mio primo contratto lo firmai a Cesena dopo cinque anni che giocavo: 222.500 lire al mese, netti. Un operaio all’epoca ne guadagnava 25mila. Mi sembravano troppi. Quelli che prendono oggi sono troppissimi». 

Le fa strano pensare a questo mondo fanta milionario? 

«Sì, molto. Non lo accetto. Perché le maglie oggi non sono più di proprietà della società, sono personali. Hanno il nome dietro. Noi dovevamo guadagnarci il posto per stare in quella società. La maglia oggi è la loro, ma non è così. Una volta eri attaccato alla maglia, ti ci aggrappavi. A Bologna l’avevamo di lana. Pensavi: speriamo che domenica non me la portino via. Oggi i ragazzi stanno tutti troppo bene, se avessero meno apprezzerebbero di più. Anche se poi c’è la povertà, quella vera. Negli ultimi due, tre anni ne vedo tanta. Sempre di più. Voglio aiutare gli altri, ospito una famiglia di ucraini nella mia casa di Arenzano. Da un anno e quattro mesi. Il figlio gioca nel Genoa, ha 12 anni. Nazar è un fenomeno». 

Venerdì c’è Bologna-Genoa, che partita si aspetta? 

«Complicata per tutte e due. Mi auguro buona per il Bologna, che è la mia squadra del cuore, che mi ha fatto conoscere al calcio italiano. Spero che i fantasmi di Udine non tornino, da quello che ho letto hanno giocato maluccio. Ma sarà una bella partita». 

Thiago Motta che allenatore è? 

«È un grande allenatore, è sulla strada di Bernardini. Ha idee, è uno che sa mandare in campo i giocatori. Thiago è uno molto preparato, non è un montato, è molto aperto. Lo metto tre i primi cinque al mondo, anche se non ha ancora fatto nulla. Al Genoa venne con umiltà. Oh, veniva dal Barcellona. Qui, da allenatore, non ha avuto fortuna: Preziosi era un mangiallenatori. Ma Thiago è molto intelligente, una volta l’ho ascoltato in allenamento: due ore. Sa spiegare. E non è uno che si ingabbia nel modulo, non esaspera la tattica».  

E Gilardino? 

«Ha iniziato molto bene, in A aveva cominciato con la sconfitta, ma si è ripreso. A Genova la gente vuole vincere. Ci sono Retegui e Gudmundsson. A Retegui ho detto: “Non puoi correre dietro a tutti così, devi giocare nella tua zona”. Altrimenti uno finisce che gioca cinque partite e poi si fa male. Ma lui è uno da muso duro. E poi c’è Gudmundsson, un signor giocatore».   

A Bologna c’è Zirkzee

«È un buon giocatore. Il Bologna è una buona squadra, con buoni giocatori, a cui Thiago dà quella mentalità per fare risultati. Mi sono meravigliato del 3-0 di Udine. Ma Thiago non ha un campione. Zirkzee mi piace. Come mi piaceva Arnautovic». 

Zirkzee come Haller? 

«Ma va, non lo dite nemmeno, non c’è paragone».  

Che ricordo ha di Haller?

«Secondo me è stato il più grande giocatore tedesco che sia mai venuto in Italia. Anche più grande di Rummenigge. Aveva corsa, estrosità, cambiava passo, rideva e si divertiva a giocare. Faceva il tunnel a uno, era un giocatore imprendibile. Dopo è andato alla Juventus, la signora del calcio italiano in quel periodo. Io ci stavo in camera. Mi voleva perché faceva i cavoli suoi. Durante un ritiro mise il materasso nella stanza da bagno, ma io non mi azzardavo a chiedere. Chissà che cosa doveva fare. Haller mi ha guidato sempre, era un tugnì, sempre allegro, scherzava sempre. Aiutava i giovani. Pascutti era più duro. Ma è Fogli quello che mi ha dato più consigli di tutti. Mi diceva: “Sidio, se vuoi giocare, vai, prenditi anche le sgridate come consiglio”. All’epoca per i giovani era così».  

Questo Bologna è da Champions League? 

«Per me sì, è una delle squadre che andrà in Europa. Ha tutte le possibilità».  

Bologna le manca? 

«È la città più bella del mondo. Abitavo in via Andrea Costa. Andavamo a mangiare alla mensa. Io dormivo con Tentorio, poi Nonino, Taverna, ragazzi che oggi nessuno conosce più. A Genova ho importato la moda dei capelli lunghi. Imitavo Best, mi piaceva, vestivo come lui, era estroso anche nella vita privata. Nel 73, dopo la vittoria della B, andammo a fare una festa. A un tavolo c’erano Bruno Lauzi e De André. Fabrizio mi ferma e mi dice: Sidio, fra un mese avrò i capelli come i tuoi. Mi piacciono quando svolazzano. Sembri un cavallo pazzo». 


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