Barone, ciao Giuseppe

Leggi il commento del Direttore del Corriere dello Sport - Stadio

Mi chiese subito di chiamarlo Giuseppe, non Joe, «perché io sono cento per cento italiano». Siciliano di Pozzallo, nel Ragusano, con la famiglia si era trasferito negli Stati Uniti quando aveva otto anni. Il calcio era la passione della vita, il legame con le radici, il principio speranza. Grazie a Commisso era diventato dirigente dei NY Cosmos e, sempre per volere di Rocco, che di lui si fidava ciecamente, da cinque anni era il volto della Fiorentina, il punto di riferimento in Italia del presidente. Barone non si risparmiava, lavorava per tre e a Firenze si era perfettamente integrato. Aveva coordinato, non senza ostacoli, il progetto Viola Park e sviluppato il complicatissimo tema stadio, andando spesso contro le istituzioni. Si era fatto anche tanti nemici non solo tra i giornalisti, per via di quella sua gestione fin troppo muscolare e selettiva dei rapporti personali e della comunicazione. Joe-Giuseppe era un tank, non amava le scorciatoie, dritto al punto e allo scontro: non ho mai capito se i guasti con la stampa, non solo con quella locale, fossero da addebitare totalmente a lui oppure se si trattasse di farina di qualche altro sacco nostrano. Ma a cosa serve saperlo ormai. L’ho incontrato tante volte, ricordo una lunga chiacchierata nella sala Freccia Club della stazione di Firenze: lui si confrontava e misurava su tutto, ascoltava apparentemente interessato, ma non cambiava opinione.


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Sapeva essere cordiale, numerosi i messaggi che ci siamo scambiati, fino al giorno in cui si arrabbiò tantissimo perché avevo rifiutato pubblicamente di partecipare alla presentazione del magnifico centro sportivo di Bagno a Ripoli censurando alcuni atteggiamenti tenuti dal club con i colleghi di Firenze. Non credo che mi abbia mai perdonato del tutto, so soltanto che amava immensamente il Guerin Sportivo che dirigo. «È la mia Bibbia», diceva. E raccontava che, bambino, partiva dal Bronx per andare ad acquistarlo a Manatthan, sulla 6th Avenue. «Ogni settimana mi riavvicinava all’Italia, alla serie A». Il 19 maggio scorso, entusiasta, mi scrisse questo: «Penso che siamo un esempio per le società medio grandi italiane soprattutto a livello di gestione. Non so se nella storia la Fiorentina sia mai arrivata in finale in due competizioni della stessa stagione. Riuscirci lavorando seriamente e con i conti in ordine in Italia è sempre stato utopistico. Per noi, a maggior ragione, di vanto e orgoglio. Questa sera è una festa del calcio italiano in tutto il mondo, 3 in finale!!!». In lega, dove da figura laterale era diventato in fretta centrale, Barone si ritrovava in particolare nelle posizioni di Claudio Lotito («ne ho intuito le capacità e abbiamo gli stessi interessi»). Era un tipo da battaglia, la Fiorentina gli deve molto.


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Mi chiese subito di chiamarlo Giuseppe, non Joe, «perché io sono cento per cento italiano». Siciliano di Pozzallo, nel Ragusano, con la famiglia si era trasferito negli Stati Uniti quando aveva otto anni. Il calcio era la passione della vita, il legame con le radici, il principio speranza. Grazie a Commisso era diventato dirigente dei NY Cosmos e, sempre per volere di Rocco, che di lui si fidava ciecamente, da cinque anni era il volto della Fiorentina, il punto di riferimento in Italia del presidente. Barone non si risparmiava, lavorava per tre e a Firenze si era perfettamente integrato. Aveva coordinato, non senza ostacoli, il progetto Viola Park e sviluppato il complicatissimo tema stadio, andando spesso contro le istituzioni. Si era fatto anche tanti nemici non solo tra i giornalisti, per via di quella sua gestione fin troppo muscolare e selettiva dei rapporti personali e della comunicazione. Joe-Giuseppe era un tank, non amava le scorciatoie, dritto al punto e allo scontro: non ho mai capito se i guasti con la stampa, non solo con quella locale, fossero da addebitare totalmente a lui oppure se si trattasse di farina di qualche altro sacco nostrano. Ma a cosa serve saperlo ormai. L’ho incontrato tante volte, ricordo una lunga chiacchierata nella sala Freccia Club della stazione di Firenze: lui si confrontava e misurava su tutto, ascoltava apparentemente interessato, ma non cambiava opinione.


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