Lazio, quello che manca a Lotito

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Ivan Zazzaroni
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A Claudio Lotito sta riuscendo un’altra impresa in qualche modo storica: trasformare Maurizio Sarri, il profeta del bel gioco, del palleggio funzionale, della linea difensiva alta che - se aggredita - scappa all’indietro, in un risultatista tra i più cinici. In che modo? Il più semplice: gli ha consegnato una squadra numericamente e qualitativamente insufficiente per affrontare i tre impegni stagionali condannandolo all’emergenza strutturale.
Due o tre numeri per chiarire meglio il concetto. Dall’andata con il Bayern alla trasferta di Firenze la Lazio ha disputato 4 partite in 12 giorni con gli stessi giocatori, tredici in tutto, compreso Castellanos, quello dei venti minuti finali. Il bilancio, due vittorie, una sconfitta col Bologna dopo un ottimo primo tempo e l’asfaltatura da parte della Fiorentina che veniva da un’intera settimana di lavoro e, per inciso, a gennaio ha aggiunto Belotti al pacchetto d’attacco.
Uscendo dai dodici in tredici, anche un non tifoso sarebbe in grado di recitare la formazione di Sarri: Provedel; Lazzari (o Hysaj) Casale (lunedì Gila era squalificato) Romagnoli Marusic; Guendouzi Cataldi Luis Alberto; Isaksen Immobile (Castellanos) Felipe. Un po’ poco per una Lazio che, se riuscisse a superare l’ostacolo di Monaco, accederebbe ai quarti di Champions, traguardo che non taglia dall’anno dello scudetto di Eriksson.
Sarri è uno che non si tiene dentro nulla e da tempo si lamenta della rosa incompleta, oltre che del calendario (direttamente collegato), del terreno di gioco dell’Olimpico, degli arbitri e di altro ancora. Sono le sue crociate donchisciottesche. Ma io sto con lui e con tutti gli allenatori che difendono il proprio ruolo, il proprio lavoro, i propri princìpi sottolineando, se necessario, le assenze della società.
L’estate scorsa, in piena campagna acquisti, Sarri aveva fornito delle indicazioni, un percorso che non è stato seguito. Per un po’ ha abbozzato, poi non ce l’ha più fatta.
L’allenatore che accetta tutto è destinato a rimediare brutte figure, spesso all’esonero, e in quel caso le responsabilità non prevedono condivisioni. Paga lui e basta.
Sarri vanta oltretutto crediti speciali: pochi mesi fa ha portato la Lazio al secondo posto, e non succedeva da 25 anni. Sempre lui ha eliminato la Roma dalla coppa Italia, risultato che ha peraltro accelerato l’esonero di Mourinho. Al presidente, che è uomo di numeri e del fare, spettava il compito di attrezzare la squadra in modo da renderla competitiva e funzionale all’ambizioso progetto tecnico-tattico 23/24.
Da quasi 20 anni al vertice della Lazio, Lotito ha tanti meriti, anche esclusivi, nella sopravvivenza e nella crescita della società: è un abilissimo amministratore, ha un grande senso pratico (e politico) ma proprio l’eccessiva praticità gli nega la visione, la vocazione all’affermazione definitiva: la sua Lazio non appena arriva a sfiorare la cima, e quindi le si presenta l’occasione di stabilirsi in alto e vincere, arretra più volutamente che naturalmente, per poi affrontare l’ennesima risalita.
Immagino che il laziale che per strada incrocia Lotito lo riempia di complimenti. Ma non è questa l’empatia che il presidente deve avere con il suo pubblico, il cliente che paga caro il biglietto. Al massimo può essere definita simpatia del momento e da risultato. Parafrasando Caramagna, nell’empatia non basta sentire. Bisogna entrare dentro la pelle, immergersi nel cuore, comprendere ambizioni e speranze e alimentarle con i fatti, perché l’empatia funziona così. Altrimenti è solo superficie.


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