Lazio, non è tempo di esperimenti

Leggi il commento al momento della squadra biancoceleste, dopo il derby
Lazio, non è tempo di esperimenti© LAPRESSE
Stefano Chioffi
4 min

Non è tempo di esperimenti, ora serve razionalità. Nasconde incognite questa ricerca esasperata di un cambiamento radicale: schemi, meccanismi, ruoli, movimenti. Dalla zona alla marcatura a uomo: culture opposte. Una corsa con il cronometro. Ma il futuro comincerà in estate, adesso c’è un presente che va costruito e rispettato. La Lazio ha sette partite per restare in Europa e deve provare a restituire un significato alla semifinale del 23 aprile con la Juve in Coppa Italia, dopo la sconfitta per 2-0 dell’andata. Igor Tudor si è regalato una stagione da protagonista sulla panchina del Marsiglia: è arrivato terzo, ha conquistato 73 punti in 38 partite, ha centrato la qualificazione ai play-off di Champions, ha fatto segnare diciotto gol ad Alexis Sanchez, ha aiutato Guendouzi a tornare il centrocampista universale ammirato nell’Arsenal, ha riscoperto un difensore come Mbemba, ha eliminato il Psg di Messi e Neymar negli ottavi della “Coupe de France”, ha saputo rivalutare il jolly Rongier e gli ex romanisti Pau Lopez, Veretout e Ünder. Allo stadio Velodrome ha lasciato grandi ricordi. Anche “L’Equipe” aveva dedicato pagine al suo 3-4-2-1, perché un anno fa l’Olympique era in corsa per il titolo, che non vince dal 2010, quando l’allenatore era Didier Deschamps. 

Gli uomini adatti agli schemi

Nessuno può cancellare i meriti di questo percorso. Ma adesso, dopo tre settimane di Lazio, il tecnico croato ha l’obbligo di capire se la squadra ereditata da Sarri abbia realmente i requisiti giusti per interpretare il suo modulo preferito. Non è solo una questione di allenamenti, di letture tattiche, di confidenza con un concetto diverso che riguarda la marcatura a uomo e le coperture degli spazi. È un problema di interpreti e di caratteristiche. A Marsiglia aveva quattro esterni perfetti come Clauss, Nuno Tavares, Kaboré e Kolasinac, che a volte veniva arretrato sulla linea dei centrali. Difficile pensare che Luis Alberto riesca a fare il trequartista alla Koopmeiners e che Felipe Anderson, un’ala pura nel 4-3-3 di Sarri, possa imparare a ragionare da terzino. Stessa difficoltà incontrata da Zaccagni, che aveva coperto tutta la fascia sinistra nella sfida di campionato con la Juve, prima che s’infortunasse alla caviglia in coppa. Il pericolo è quello di trasformare le ultime sette giornate e la semifinale di ritorno con Allegri in un corso sperimentale di 3-4-2-1, rischiando di alienare il capitale qualitativo di questo gruppo, che avrà anche tradito le aspettative ma non può restare bloccato in una classifica così anonima.  Cambiare allenatore, in base ai ragionamenti di Lotito, è stata una necessità dettata dalle dimissioni di Sarri e dai deludenti risultati della Lazio.

La ricerca della credibilità

Ma il 4-3-3 studiato per due anni e mezzo non si cancella con un colpo di spugna. Nel 1996, quando Cragnotti chiese a Zoff di sostituire Zeman, Superdino ridisegnò la squadra con un 4-4-2, togliendo un attaccante (Rambaudi) e inserendo un mediano (Venturin): mossa che gli consentì di restituire Nedved al suo ruolo naturale, quello di incursore. Zoff arrivò quarto, raccogliendo trentadue punti in sedici partite. La riflessione di Tudor, dopo la sconfitta nel derby, merita un’analisi approfondita: « In campo alcuni giocatori sono portati ancora a fare i movimenti che venivano chiesti da Sarri » . Logico, naturale, quasi inevitabile. Ecco perché un confine netto con il passato si potrà tracciare solo a luglio, in ritiro, dopo un mercato - si spera - finalmente condiviso, privilegio negato a Mau e agli altri predecessori del croato. Ora la Lazio deve recuperare un po’ di credibilità e prendersi un posto in Europa, scegliendo le soluzioni più adatte e funzionali al suo profilo. Il nuovo modulo non può rappresentare l’ennesimo fattore condizionante di un anno complicato.


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