"Vinciamo lo scudetto, Re Cecconi. Oggi l'ho capito"
Però sono venuti a danzare e infatti, adesso, danzano. Giacomi, il portiere del Verona che morirà a ventisette anni, alla viglia del funerale del fratello, ucciso dal monossido di carbonio mentre dorme con l’altro suo fratello, continua a parare ogni spiffero. Ma dopo quattro minuti è già due a due e alla fine i gol, con Chinaglia a quota ventuno, saranno quattro. La gente sciama con le radioline all’orecchio e la voce di Sandro Ciotti: «È stata una grossa prova di maturità quella a nostro avviso quello che ha fornito oggi la Lazio, ha saputo reagire da grande complesso dimostrando maturità in ogni singolo elemento». In campo, riguadagnando la doccia, Gigi Martini si avvicina a Luciano, il biondo, l’amico con cui si lancia con il paracadute. Hanno i piedi a terra, ma sono in volo. Gigi si ricorda dell’epoca in cui vestivano di verde, erano militari e Luciano provava a farsi punire per starsene per conto proprio. Gli si disegna una ruga sulla guancia sinistra, si vede che è serio, ma dentro ride: «Vinciamo lo scudetto, soldato Re Cecconi. Oggi l’ho capito».
12 maggio 1974, Stadio Olimpico, interno giorno.
A Gigi il silenzio è sempre piaciuto, ma questo silenzio non è. Ogni cosa è al proprio posto sulle panche in legno, le borse sono per terra, la rete con i palloni è nell’angolo, i vestiti come rami pendono dalle grucce. Gigi Martini si è appena lussato la clavicola e nello spogliatoio, ora che anche Trippanera, il massaggiatore che somiglia a Sal Borgese, si chiama Gigi come lui, impasta i muscoli come un pizzaiolo si applicherebbe sulla farina e che nel tempo libero dipinge, dopo averlo appoggiato delicatamente, si è dileguato, è solo. Il quadro da osservare è qualche metro più su, ma Gigi chiede all’altro Gigi di restare: «Non posso, cerca di capirmi». Lo capisce Martini, lo capisce. E allora dimentica il dolore ed è colto da un’ebrezza a cui non riesce a dare un nome. Esserci senza esserci. Intuire, sentire i vetri che tremano, capire che la sua squadra è in vantaggio. Si apre la porta della stanza, entra Garlaschelli. «Ha fischiato?». «Sì, per buttarmi fuori», «Ti sei fatto espellere?». Garla non risponde. Non ce n’è bisogno perché ora gli uomini soli sono in due. E presto soli non saranno più. Al piano di sopra, Panzino fischia tre volte. Poi come Nureyev alla fine di un passo di danza rimane immobile, mentre chi invade il campo lo circumnaviga come una boa. Non è lui che inseguono. Cercano una reliquia, un lembo di maglietta, un ricordo da far ingiallire perché le cose meravigliose hanno questo di atroce: passano e sfuggono. Come la vita. Ora sono tutti dentro.
"Credo che avremo vent'anni per sempre"
Entra Renato Ziaco. Il medico che cura tutti, soprattutto chi non ha una lira. Lo specialista che lascia il caffè sospeso, come a Napoli. Il dottore che ha visto Abebe Bikila a piedi scalzi a Roma nel ’60 e adesso si porta via Martini in Via del Corso, al San Giacomo: «Andiamo a operarci, Gigi». Arrivano in ambulanza e oltre i vetri subodorano il delirio. C’è un timbro collettivo, allegro e belluino. A Giancarlino Oddi ruberanno la macchina, magari per andare a fare festa. Chissà. Lui rivorrebbe soprattutto il montone che ha lasciato sul sedile posteriore. A piedi scalzi pietosamente guarniti da due ciabatte arriva invece Felice, il portiere che è appena diventato padre e va a nord, a festeggiare la nascita di suo figlio Gabriele. Ha fretta, ma nella bolgia dello spogliatoio non trova le sue scarpe. Martini che ha l’armadietto accanto al suo le ha prese per sbaglio e gli ha lasciato le sue. Felice “calza” due numeri in meno e deve recuperarle. Salta dentro l’ultima ambulanza e lo raggiunge in ospedale. Ziaco è quasi commosso: «Sei veramente buono Felice, l’unico tra tutti a ricordarsi di Gigi». Gigi gli chiede solo «e adesso? Adesso che facciamo?». Felice è già lontano, ma Gigi resta con la sua domanda. Un giorno, poco tempo dopo, la pone a Re Cecconi, identica. Senza una sillaba in più né in meno. Luciano ci pensa il tempo di un battito d’ali: «Niente, non facciamo niente. Credo che avremo vent’anni per sempre».