Pagina 2 | Speciale Lazio 1974, uno scudetto da romanzo: “Vinciamo il titolo, soldato Re Cecconi”

14 aprile 1974, Stadio Olimpico, esterno giorno.

Non ti serve un calendario per capire qual è il mese. Nuvole e pioggia. Ancora sei partite a iniziare da questa, che sembra la più tranquilla anche se a Roma tranquillo è morto l’altro ieri. Il Verona lotta per non passare dall’Olimpico al Fanuzzi di Brindisi. La Lazio ha un appuntamento con il destino. L’anno prima, un genio di nome Zigoni ha abbattuto il Milan di Rocco con l’amico Livio Luppi. Luppi è rimasto in Veneto e Zigoni che prende botte e calci da settembre, ha passato più tempo a letto che in campo. Oggi però è in piedi. Scende dal torpedone in pelliccia e sorride. Cadè, l’allenatore, con la coppola sulla testa, invece, non sorride mai. Sui trentanovemila biglietti venduti spicca il logo di un’assicurazione: «Più sicurezza, più serenità, per voi, per tutti», ma l’aria è elettrica e nessuno può garantire il futuro, neanche quello immediato. L’associazione calciatori è in rivolta. La partita inizia con un quarto d’ora di ritardo a causa della protesta e Giunti di Arezzo, un internazionale, ammonisce i capitani Pulici e Mascalaito. Poche settimane e andrà in pensione anche Giunti, ma adesso è lì, a controllare le distinte, ad ascoltare i rumori, a intravvedere il bianco del cielo dal tunnel degli spogliatoi. Pronti via e Bet, un ex romanista, si veste da Comunardo Niccolai. Autogol, Lazio in vantaggio, sembra fatta.

Lazio, danza silenziosa all'Olimpico

In porta nel Verona gioca un ragazzo di nome Giacomi. È partito come terzo portiere, ma il primo designato, Belli, è entrato in un tunnel personale e a fine stagione annuncerà il ritiro e il secondo, Porrino, oggi lo guarda dalla panchina. Giacomi vola. Giacomi para tutto. Zigoni pareggia e poi Oddi imita Bet. Due a uno per il Verona all’intervallo. Marca male, malissimo. Tornano tutti a capo chino, qualcuno impreca, qualcun altro dà un calcio ai tabelloni. Davanti alla porta dello stanzone Maestrelli ha anticipato i suoi. «Volete anche un tè caldo? Tornate in campo, oggi pure l’intervallo è in sciopero». E quelli tornano perché Tom parla poco, ma sa come parlare. Non somiglia a Renato Cesarini che davanti alla commissione esaminatrice che deve concedergli il patentino da allenatore si sente domandare «ha mai scritto libri sul calcio?» e risponde «no, ma se mi portate i vostri vi correggo gli errori». Non gli somiglia, ma ha la sua zona. Così Giorgione e i suoi, all’addiaccio, nello stupore di chi osserva e non capisce, aspettano immobili o quasi, sulla linea di centrocampo. Potrebbero essere gli All Blacks, ma la loro è una danza silenziosa.


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"Vinciamo lo scudetto, Re Cecconi. Oggi l'ho capito"

Però sono venuti a danzare e infatti, adesso, danzano. Giacomi, il portiere del Verona che morirà a ventisette anni, alla viglia del funerale del fratello, ucciso dal monossido di carbonio mentre dorme con l’altro suo fratello, continua a parare ogni spiffero. Ma dopo quattro minuti è già due a due e alla fine i gol, con Chinaglia a quota ventuno, saranno quattro. La gente sciama con le radioline all’orecchio e la voce di Sandro Ciotti: «È stata una grossa prova di maturità quella a nostro avviso quello che ha fornito oggi la Lazio, ha saputo reagire da grande complesso dimostrando maturità in ogni singolo elemento». In campo, riguadagnando la doccia, Gigi Martini si avvicina a Luciano, il biondo, l’amico con cui si lancia con il paracadute. Hanno i piedi a terra, ma sono in volo. Gigi si ricorda dell’epoca in cui vestivano di verde, erano militari e Luciano provava a farsi punire per starsene per conto proprio. Gli si disegna una ruga sulla guancia sinistra, si vede che è serio, ma dentro ride: «Vinciamo lo scudetto, soldato Re Cecconi. Oggi l’ho capito». 

12 maggio 1974, Stadio Olimpico, interno giorno.

A Gigi il silenzio è sempre piaciuto, ma questo silenzio non è. Ogni cosa è al proprio posto sulle panche in legno, le borse sono per terra, la rete con i palloni è nell’angolo, i vestiti come rami pendono dalle grucce. Gigi Martini si è appena lussato la clavicola e nello spogliatoio, ora che anche Trippanera, il massaggiatore che somiglia a Sal Borgese, si chiama Gigi come lui, impasta i muscoli come un pizzaiolo si applicherebbe sulla farina e che nel tempo libero dipinge, dopo averlo appoggiato delicatamente, si è dileguato, è solo. Il quadro da osservare è qualche metro più su, ma Gigi chiede all’altro Gigi di restare: «Non posso, cerca di capirmi». Lo capisce Martini, lo capisce. E allora dimentica il dolore ed è colto da un’ebrezza a cui non riesce a dare un nome. Esserci senza esserci. Intuire, sentire i vetri che tremano, capire che la sua squadra è in vantaggio. Si apre la porta della stanza, entra Garlaschelli. «Ha fischiato?». «Sì, per buttarmi fuori», «Ti sei fatto espellere?». Garla non risponde. Non ce n’è bisogno perché ora gli uomini soli sono in due. E presto soli non saranno più. Al piano di sopra, Panzino fischia tre volte. Poi come Nureyev alla fine di un passo di danza rimane immobile, mentre chi invade il campo lo circumnaviga come una boa. Non è lui che inseguono. Cercano una reliquia, un lembo di maglietta, un ricordo da far ingiallire perché le cose meravigliose hanno questo di atroce: passano e sfuggono. Come la vita. Ora sono tutti dentro.

"Credo che avremo vent'anni per sempre"

Entra Renato Ziaco. Il medico che cura tutti, soprattutto chi non ha una lira. Lo specialista che lascia il caffè sospeso, come a Napoli. Il dottore che ha visto Abebe Bikila a piedi scalzi a Roma nel ’60 e adesso si porta via Martini in Via del Corso, al San Giacomo: «Andiamo a operarci, Gigi». Arrivano in ambulanza e oltre i vetri subodorano il delirio. C’è un timbro collettivo, allegro e belluino. A Giancarlino Oddi ruberanno la macchina, magari per andare a fare festa. Chissà. Lui rivorrebbe soprattutto il montone che ha lasciato sul sedile posteriore. A piedi scalzi pietosamente guarniti da due ciabatte arriva invece Felice, il portiere che è appena diventato padre e va a nord, a festeggiare la nascita di suo figlio Gabriele. Ha fretta, ma nella bolgia dello spogliatoio non trova le sue scarpe. Martini che ha l’armadietto accanto al suo le ha prese per sbaglio e gli ha lasciato le sue. Felice “calza” due numeri in meno e deve recuperarle. Salta dentro l’ultima ambulanza e lo raggiunge in ospedale. Ziaco è quasi commosso: «Sei veramente buono Felice, l’unico tra tutti a ricordarsi di Gigi». Gigi gli chiede solo «e adesso? Adesso che facciamo?». Felice è già lontano, ma Gigi resta con la sua domanda. Un giorno, poco tempo dopo, la pone a Re Cecconi, identica. Senza una sillaba in più né in meno. Luciano ci pensa il tempo di un battito d’ali: «Niente, non facciamo niente. Credo che avremo vent’anni per sempre». 


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Roma, 2024, esterno giorno.

Pino, il capitano se ne è andato via un paio d’anni fa. Giorgio, Tommaso, Umberto, Renato, Mario, Luigi, Luciano e Vincenzo lo aspettavano, senza fretta, per sentirsi meno soli, nella prigione dei ricordi, al pari di Aldo Moro: «Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo». Lamberto Boranga, il portiere medico che beveva tazzine di caffè durante la partita, amava Ernesto Guevara e in un lontano giorno a Reggio Emilia si era scontrato a singolar tenzone con Chinaglia, aveva scritto versi simili: «Avrei bisogno di te / per ritrovare / nel buio della mia malinconia / la luce». Erano poeti, poeti inconsapevoli e di poeti, disse Moravia in un giorno più triste di altri, non ce ne sono poi tanti nel mondo. Uno scudetto è tutto e non è nulla. Uno scudetto è come un anno con le sue stagioni: passa, vola, cambia faccia. Restano gli uomini, i caratteri, le esperienze. Restano gli scherzi e le risse. Restano le avventure e le fughe notturne. Resta di più, sempre di più di quanto non si pensi quando le cose avvengono. Tommaso Maestrelli lo aveva capito il 12 maggio di cinquant’anni fa: «Sono dodici mesi che penso a questo giorno e adesso mi sfugge via così, senza un attimo di tregua. Non so niente, non chiedetemi niente. Sento qualcosa che mi schiaccia e che non posso spiegare». Così si parla solo in paradiso. 


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"Vinciamo lo scudetto, Re Cecconi. Oggi l'ho capito"

Però sono venuti a danzare e infatti, adesso, danzano. Giacomi, il portiere del Verona che morirà a ventisette anni, alla viglia del funerale del fratello, ucciso dal monossido di carbonio mentre dorme con l’altro suo fratello, continua a parare ogni spiffero. Ma dopo quattro minuti è già due a due e alla fine i gol, con Chinaglia a quota ventuno, saranno quattro. La gente sciama con le radioline all’orecchio e la voce di Sandro Ciotti: «È stata una grossa prova di maturità quella a nostro avviso quello che ha fornito oggi la Lazio, ha saputo reagire da grande complesso dimostrando maturità in ogni singolo elemento». In campo, riguadagnando la doccia, Gigi Martini si avvicina a Luciano, il biondo, l’amico con cui si lancia con il paracadute. Hanno i piedi a terra, ma sono in volo. Gigi si ricorda dell’epoca in cui vestivano di verde, erano militari e Luciano provava a farsi punire per starsene per conto proprio. Gli si disegna una ruga sulla guancia sinistra, si vede che è serio, ma dentro ride: «Vinciamo lo scudetto, soldato Re Cecconi. Oggi l’ho capito». 

12 maggio 1974, Stadio Olimpico, interno giorno.

A Gigi il silenzio è sempre piaciuto, ma questo silenzio non è. Ogni cosa è al proprio posto sulle panche in legno, le borse sono per terra, la rete con i palloni è nell’angolo, i vestiti come rami pendono dalle grucce. Gigi Martini si è appena lussato la clavicola e nello spogliatoio, ora che anche Trippanera, il massaggiatore che somiglia a Sal Borgese, si chiama Gigi come lui, impasta i muscoli come un pizzaiolo si applicherebbe sulla farina e che nel tempo libero dipinge, dopo averlo appoggiato delicatamente, si è dileguato, è solo. Il quadro da osservare è qualche metro più su, ma Gigi chiede all’altro Gigi di restare: «Non posso, cerca di capirmi». Lo capisce Martini, lo capisce. E allora dimentica il dolore ed è colto da un’ebrezza a cui non riesce a dare un nome. Esserci senza esserci. Intuire, sentire i vetri che tremano, capire che la sua squadra è in vantaggio. Si apre la porta della stanza, entra Garlaschelli. «Ha fischiato?». «Sì, per buttarmi fuori», «Ti sei fatto espellere?». Garla non risponde. Non ce n’è bisogno perché ora gli uomini soli sono in due. E presto soli non saranno più. Al piano di sopra, Panzino fischia tre volte. Poi come Nureyev alla fine di un passo di danza rimane immobile, mentre chi invade il campo lo circumnaviga come una boa. Non è lui che inseguono. Cercano una reliquia, un lembo di maglietta, un ricordo da far ingiallire perché le cose meravigliose hanno questo di atroce: passano e sfuggono. Come la vita. Ora sono tutti dentro.

"Credo che avremo vent'anni per sempre"

Entra Renato Ziaco. Il medico che cura tutti, soprattutto chi non ha una lira. Lo specialista che lascia il caffè sospeso, come a Napoli. Il dottore che ha visto Abebe Bikila a piedi scalzi a Roma nel ’60 e adesso si porta via Martini in Via del Corso, al San Giacomo: «Andiamo a operarci, Gigi». Arrivano in ambulanza e oltre i vetri subodorano il delirio. C’è un timbro collettivo, allegro e belluino. A Giancarlino Oddi ruberanno la macchina, magari per andare a fare festa. Chissà. Lui rivorrebbe soprattutto il montone che ha lasciato sul sedile posteriore. A piedi scalzi pietosamente guarniti da due ciabatte arriva invece Felice, il portiere che è appena diventato padre e va a nord, a festeggiare la nascita di suo figlio Gabriele. Ha fretta, ma nella bolgia dello spogliatoio non trova le sue scarpe. Martini che ha l’armadietto accanto al suo le ha prese per sbaglio e gli ha lasciato le sue. Felice “calza” due numeri in meno e deve recuperarle. Salta dentro l’ultima ambulanza e lo raggiunge in ospedale. Ziaco è quasi commosso: «Sei veramente buono Felice, l’unico tra tutti a ricordarsi di Gigi». Gigi gli chiede solo «e adesso? Adesso che facciamo?». Felice è già lontano, ma Gigi resta con la sua domanda. Un giorno, poco tempo dopo, la pone a Re Cecconi, identica. Senza una sillaba in più né in meno. Luciano ci pensa il tempo di un battito d’ali: «Niente, non facciamo niente. Credo che avremo vent’anni per sempre». 


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