Insigne, compreso sì, assolto no

«Che squadra di merda!». Di fronte a uno, in questo caso Lorenzo Insigne, che al 94’ di una partita già vinta, e sarebbe stata una vittoria inestimabilmente, se ne esce così, abbiamo due strade davanti
Insigne, compreso sì, assolto no© ANSA
Giancarlo Dotto
4 min
Tagsnapoli

«Che squadra di merda!». Di fronte a uno, in questo caso Lorenzo Insigne, che al 94’ di una partita già vinta, e sarebbe stata una vittoria inestimabilmente, cazzutamente, gattusianamente fondamentale, anche per quanto tribolata, se ne esce così, smadonnando i compagni e prendendo a calci qualunque cosa, abbiamo due strade davanti. Assolvere l’uomo, imbarcandoci nell’elogio zavattiniano sempre accattivante della spontaneità, dello sfogo in quanto verità, l’uomo scorato che si vede svanire all’ultimo secondo la ciambella nel suo buco assurdo. O biasimare il capitano, forse anche degradarlo, ricordando a lui, a me stesso e a chiunque voglia ricordarlo che il mondo non potrebbe sopravvivere più di cinque minuti inciampando leggiadro nella verità. E che, se ci affidassimo all’istinto, lo stesso mondo diventerebbe una corrida tra cannibali pronti a scannarsi per futili motivi. Insomma, la verità va maneggiata con moltissima cura, soprattutto se portiamo una fascia al braccio.

Insigne e il precedente di Dzeko

Ci penso quattro secondi esatti e vado a gonfie vele sulla seconda, memore anche del precedente di Edin Dzeko, altro capitano e altro labiale sputtanato dal solito Grande Flagello, l’Occhio che ti spia e ti decifra anche quanti peli hai sulla lingua, e ben sapendo che la mia è soltanto una delle due verità possibili (l’altra è il suo contrario). Memore anche di chi, non ricordo chi, ci ricorda che l’ortica è l’erba che più cresce spontanea. Tornando a Insigne. 24 è il numero dell’oro puro, 24 carati, un numero quasi perfetto, ma in questo caso non è il numero del capitano perfetto. Potremmo pilatescamente perdonare Lorenzo, in questo caso evitando fastidiose oltre che facili crocefi ssioni, raccontare di un momento di debolezza di un ragazzo emotivamente stremato da una partita che gli aveva riservato di tutto. Tutto vero, ma anche tutto falso. Dipende dalla lente che indossi. Il punto è questo. Interrogarsi su cosa sia un capitano. Che capitano vogliamo per noi, alla guida di una squadra, di una famiglia, di un condominio, di un giornale o di una nazione? Sarebbero perdonabili un Draghi o un papà Oreste del Vomero, colti pubblicamente, al culmine di una delusione atroce, magari al fondo di un’invereconda bagarre parlamentare o di una rissa domestica che sibilano, leggibili dai loro cittadini o fi gli, «che nazione di merda!», «che famiglia di merda!» o «che giornale di merda!». Puoi anche pensarlo, ma se lo dici, che tu lo sibili o lo urli, hai passato il Rubicone, sei nella terra del non ritorno. Domanda: puoi tornare domani o domenica capitano di una squadra che hai appena definito “di merda”?

Insigne compreso sì, forse assolto no

Insomma, compreso sì, forse, assolto no. È vero che Draghi, non so papà Oreste, ha cinque lauree, è un uomo forbito e ha fatta sua l’arte del vivere e sopravvivere tacendo. Ma interpretare il ruolo di capitano non è roba che si studia all’università. Uno come Mishima, magari avrebbe fatto harakiri a Reggio Emilia, rivendicando il disonore della sconfitta come proprio, in quanto capitano morale di una collettività ferita. Anche senza arrivare all’estremo, dovendo limitarsi alla parola, avrebbe quanto meno imprecato: «Sono il capitano di merda di una squadra di merda!». La differenza non è per niente sottile. Non pretendiamo l’harakiri da Insigne e nemmeno da Dzeko, ma possiamo forse spingere chiunque si trovi a portare una fascia al braccio, nel calcio come nella vita, a chiedersi che diavolo signifi ca questo magnifi co straccio addosso. Se lo facessimo tutti, giuro, sarebbe un mondo migliore.


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