Spalletti, mille e una notte

Un lungo viaggio iniziato a Empoli nell’aprile 1994: la sua idea di calcio ha attraversato tre decenni. E finalmente a Napoli può regalarsi lo scudetto
Spalletti, mille e una notte© ANSA
Antonio Giordano
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Se diecimilacinquecentoventisei (10.526) giorni sembrano tanti, ci si può sempre rifugiare in mille partite: fa conto pari, definisce un tempo e, a modo suo, è anche più chic, oltre a raccontare una vita, forse pure una pagina di Storia. Quando Luciano Spalletti non era ancora Luciano Spalletti, e però si sospettava che lo potesse diventare, Massese-Empoli si trasformava in una sfida silenziosa che un uomo avviava con se stesso, per capire cosa fare da Grande o come diventarlo: ma il 24 aprile del 1994, per i suoi colleghi di Coverciano, “il talento” s’era già mostrato in quella naturale vocazione “sovversiva” che adesso è esplosa fragorosamente. «È il più bravo».  

Sassuolo-Napoli è un brivido, un carillon e pure un fotogramma d’un vissuto che Luciano Spalletti si porta appresso, è un percorso arricchito dalla sua morbosa curiosità, d’una ricerca persino ossessiva d’un stile che non rimanesse confinato nei vicoli delle banalità ma che emergesse nell’eleganza delle forme e andasse oltre il manierismo italico.  
Le mille bolle di Luciano Spalletti ora sono d'un azzurro vivo, sprigionano l’allegria di questi ventinove anni decollati con l’Empoli e però poi diffusa ovunque, anche nelle dolenti domeniche che il calcio non nega a nessuno, perché nell’Idea il buon gusto ha sempre prevalso sul cinismo tout court e Napoli è divenuto il poster d’una carriera impregnata d’un modello perennemente alto di spettacolo, d’un linguaggio che uscisse dal blablabla e inseguisse la diversità: diciannove vittorie, due pareggi, una sola sconfitta non sono sufficienti a definire un’impresa, possono eventualmente disegnarla nell’orizzonte, dal quale viene aspirata qualsiasi traccia d’euforia. «E i nostri tifosi ci aiutano a restare concentrati»

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Lo show

In tre decenni scarsi, ci sono vari Spalletti che appartengono però semplicemente a se stesso, e ciò che resta, al di là di certi spigoli che adesso paiono rimossi, la cifra tecnica ha goduto d'un tratto identitario. La millesima partita, Sassuolo-Napoli, sa di tutto e contemporaneamente di niente, viene “ridimensionata” nel silenzio tutt’altro che casuale d’una vigilia da “banalizzare” per evitare celebrazioni e apologie su una stagione fascinosa ed abbagliante, però appartiene ad una carriera che è carica d’innovazioni, che s’è alimentata in quel laboratorio personalissimo tra difese a tre e mezzo e centravanti costruiti nello spazio, nell’anticonformismo di chi s’è sviluppato intorno al proprio mantra «uomini forti, destini forti» declamato anche brutalmente in alcuni one man show di fronte a microfoni e taccuini che non ha mai lusingato.

Il Napoli è il capolavoro dell’anima, in quel tour che l’ha trascinato dalla provincia alle capitali, affrescate d’un calcio rivoluzionario, un prodigio dell’estetica, che adesso appartiene a questo tempo tutto suo, con quindici punti di vantaggio sulla seconda, dettaglio esistenziale per chi preferisce starsene lontano dal chiacchiericcio statistico: «Non è finita e qua si mangia con il presente, non certo con il futuro. Abbiamo un’occasione irripetibile ma il Napoli evita di pensare che sia già vinto». E Spalletti alzerà le spalle dinnanzi alla sua millesima partita, un viaggio ad esplorare nuovi mondi, a tracciare rotte possibilmente esclusive o alternative: quando comiciò, in una domenica che non si perde tra i ricordi, in quello che si chiamava San Paolo, si giocava Napoli-Parma, finì 2-0, sulla sua panchina sedeva Marcello Lippi, il general manager di quel club era Ottavio Bianchi, l’uomo del primo scudetto che si era inventato un’altra esistenza e aspettava sempre che nascesse un erede suo e di Bigon, gli unici ad aver portato lo scudetto a Napoli. Mica a Massa potevano immaginare che forse realtà e fantasia si fondessero...


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