Napoli, dietro i segreti di Mazzarri: cambia tutto, anche il fumo

Mentre l’allenatore prepara la trasferta di Bergamo, emergono subito tutte le novità: ecco cosa è cambiato
Antonio Giordano
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NAPOLI - Com’era, com’è cambiato? 3846 giorni non li attraversi in un nano-secondo, né adagiandoti comodamente in poltrona a riveder te stesso: ma la sera in cui Walter Mazzarri uscì dal San Paolo - il San Paolo - lo stadio di quei sogni da afferrare pure per l’ultimo ciuffo dei capelli, nel suo orizzonte di cinquantatreenne in carriera mancava la prospettiva di infilarsi, come un gatto in Tangenziale, in quell’inversione a U per imboccare ancora e di nuovo l’uscita di Fuorigrotta e quella di Castel Volturno, per ritrovarsi eguale a se stesso ma sostanzialmente rifatto. Il 12 maggio del 2013, in un Napoli-Siena penultima partita del suo quadriennio partenopeo (un pieno d’adrenalina a cielo aperto inseguendo qualcosa, fosse pure l’utopia) chiuso nelle favole che contengono il lieto fine d’una Champions da lasciare sul comodino degli eredi, restava la consapevolezza d’un addio, la certezza (quasi) irreversibile d’uno strappo definitivo e la tenera sicurezza ch’era stato tutto bello, a tratti persino bellissimo, ma che ormai era tutto irrimediabilmente finito. Nulla è per sempre, almeno fino a prova contraria, e tra le pieghe di quella stretta di mano, c’era (almeno pareva) la separazione dal vissuto. Succede!  Il tempo era stato scandito splendidamente, sin da Napoli-Bologna, il debutto (in prima persona, dopo l’esperienza da vice di Ulivieri nel ‘89) vissuto a modo suo (rimonta in zona Walter, gol di Quagliarella e Maggio nel finale, trasformando lo 0-1 in un 2-1 surreale) e quell’orologio mostrato sistematicamente all’arbitro, la sua ossessione di un’epoca che sembra appartenergli ma anche no, lo sussurrava implacabilmente: adesso che vanno risistemate le lancette, e bisogna correre come se non ci fosse un domani, il cronometro del Mazzarri 2 insegue sfide egualmente capricciose, certo dense del talento immenso di quella squadra che ha caratterizzato quest’epoca, e il ticchettio assordante che spettina i pensieri gli chiede di restar se stesso, se può, senza più riccorrere neppure alle nuvole di fumo delle sigarette dalle quali è sfuggito

Mazzarri e la difesa a quattro per il Napoli 

In sintesi, e brutalmente, è solo una questione di numeri, non di schemi e neanche di modelli di riferimento: per salire sulla giostra, e lasciarsi accarezzare il mento volitivo, Mazzarri ha buttato via il suo mantra, la difesa a tre, e s’è tuffato in una “scienza” per lui inedita, la difesa a quattro, una tendenza di massa dalla quale s’è tenuto sistematicamente alla larga, per convinzione, per istinto e ispirazione mica per tendenza. Però, davanti, di tenori ne ha sempre avuti tre (Lavezzi, Hamsik e Cavani; altrimenti Pandev), anche a Napoli, combinandoli con un atteggiamento diverso, quasi alternativo, che adesso va ricostruito attraverso una rilettura dei propri codici e quella sgargiante bellezza che appartiene ad Osi, a Kvara, a Zielinski, gli artisti nei quali specchiare la propria immagine moderna.  

Mazzarri riparte da Pozzuoli

Per accomodarsi nel suo spazio, in quell’habitat naturale ch’è stata quella vita, Mazzarri ha scelto Pozzuoli, l’albergo che l’accolse, le strade che l’accompagnavano verso Castel Volturno; ha lasciato a comfort zone di San Vincenzo, la sua sua visione da imprenditore evoluto di ville di lusso a Campiglia Marittima, e per confrontarsi, o ritrovare qualcosa di sé, riparte da Nicolò Frustalupi, il secondo del decennio scorso, e da Giuseppe Pondrelli, il preparatore che ridiede anima ad una squadra spenta: ma affinché rivivesse pure la nostalgia, da raccattare nel labirinto della memoria, De Laurentiis ha arricchito lo staff con Gianluca Grava, il simbolo della tenacia (Napoli-Lecce, 0-1 al 94’, gol spaziale di Cavani però dopo che il terzino ora collaboratore aveva salvato sulla linea della porta di De Sanctis). E’ da certi particolari che si giudica una rivoluzione. Il Mazzarri 1 non s’è mai fermato al 90’, ha allungato le sue sfide oltre l’umana resistenza, le ha riempite di quella ferocia ch’è diventata un marchio di fabbrica, l’ha condita d’un orgoglio divenuto alleato con la Steaua o anche a Firenze, a Torino con la Juventus o con il Milan dallo 0-2 al 2-2 nei 5’ più turbolenti emotivamente che lo stadio possa ricordare: e come un cavaliere, senza macchia e pure senza freni inibitori, quando la temperatura era prossima allo zero, via la giacca e per paltò solo la speranza. La vita non è mai come ce l’immaginiamo. Si ricomincia dai balli già ballati. 


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