Si fa in fretta a radunare centomila persone, uno al fianco all’altro, per provare a trasmettere un pizzico di calore, per fare in modo che non ci si senta soli: è una fase cupa, ci sono le ombre che hanno sostituito le luci del passato, e serve far gruppo.
La partita modello
Una volta, quando il calcio era in bianco & nero, lo chiamavano il dodicesimo uomo in campo, un fattore: poi è nato lo stadio virtuale, che a volte attrae ed altre no, e qualcosa è cambiato. Ma oggi è un altro giorno, come lo sarà mercoledì sera, qui si (ri)costruisce il futuro e il cemento è la fede, che non è retorica ma uno stato d’animo. Napoli-Genoa è stata, e romanticamente un po’ tale rimane, la «Partita Modello»: grandi cene, gemellaggio quarantennale, una atmosfera come si vorrebbe fosse sempre, i tratti di una fratellanza quasi unica. E’ svanita quella magìa ma resta comunque una simpatia di fondo, l’onda lunga di quelle vigilie e nessuna traccia di animosità, neanche di rivalità, perché quel vissuto appartiene a chiunque, a Napoli ed al Genoa, che nel 2007 tornarono assieme in serie A.
Una voce amica
I cinquantamila che in questo sabato si sono dati appuntamento al Maradona paiono sentinelle alla frontiera d’un sogno quasi irrealizzabile: è difficile, pare impossibile riafferrare l’Atalanta e/o il Bologna per quel posto, che sia il quarto o che sia il quinto machissenefrega, con il quale andarsene in Champions League, e però bisogna provarci subito, non c'è più tempo da perdere. E saranno lì, vada come vada, perché dopo aver gioito per un anno intero con quel calcio (quasi) irripetibile di Spalletti, dopo aver vissuto con i loro eroi, sanno e sentono che per uscire dagli equivoci e dalla malinconia è necessaria, anzi indispensabile, una voce amica, meglio se un coro.