Graziani, l'intervista: "Mourinho è il Liedholm moderno"

La sua estate generosa: un bicchiere di vino, tanti amici, due nipotini che lo fanno impazzire. E gli enigmi dello Special che innescano i ricordi
Graziani, l'intervista: "Mourinho è il Liedholm moderno"© Bartoletti
Marco Evangelisti
7 min

Francesco Graziani detto Ciccio. Detto anche il generoso. Come se fosse un limite. È che cercava sempre di fare una cosa in più rispetto al possibile. Glielo chiediamo anche oggi: di confrontare due epoche differenti, due testimoni di mondi distanti tra loro. Ci riesce, perché oltre a essere generoso è anche brillante e ha un’ottima memoria. Se non ci credete, continuate a leggere.

Graziani, come procede la sua estate?
«Bene, bene. Quando c’è la salute, il resto conta poco. Un bicchiere di vino con gli amici. Anche da solo, qualche volta. La più bella estate del mondo».

Fortunato, se riesce sempre a passare le vacanze in questo modo.
«Ho anche due nipotini che mi fanno impazzire. Mettiamoci dentro pure loro. Vedo un po’ meno la bambina, perché mio figlio vive a Mantova. Ma il maschietto è ad Arezzo, a due chilometri da casa mia».

E il lavoro?
«Procede. Ho ancora un anno di contratto con la televisione, Mediaset. Faremo la Coppa Italia, facciamo la trasmissione domenicale. Parliamo di calcio, ci divertiamo. Qualche volta diciamo anche due stupidaggini. Fa parte del gioco».

Ecco, giochiamo. Ha seguito questa vicenda di Mourinho che fa gli indovinelli sui social?
«Eh, come no. L’abbraccio all’attaccante invisibile, i piedi sul tavolo, il ghiacciolo, il numero di Morata sul monitor alle sue spalle. Gli piace essere al centro della scena e tira fuori trovate simpatiche, goliardiche. A volte secondo me esagera. Ma ha una capacità invidiabile di entrare in sintonia con il pubblico. Che infatti lo adora».

Peccato che la Roma debba barcamenarsi.
«Migliorare la squadra e insieme abbassare le spese. Non è mica semplice. A me sembra che i Friedkin stiano facendo quel che possono per mantenere competitiva questa squadra».

Il tempo stringe: il campionato chiamalo ed è arrivato.
«Ma anche altri club non si sono mossi, altri ancora hanno effettuato un movimento o due. La necessità di cedere e fare cassa non riguarda solo le società italiane. Poi le situazioni cambiano come cambia il tempo. Guardate Scamacca: io ero convinto sarebbe finito alla Roma, poi sembrava l’avesse ingaggiato l’Inter ed è andato all’Atalanta».

Comunque la Roma un attaccante deve prenderlo.
«Anche due. Ma non basta. Le servono giocatori in grado di migliorare la manovra offensiva. Nella scorsa stagione ci sono state le responsabilità de lle punte , Dybala a parte . P erò bisogna riuscire a creare di più e a fornire più opportunità agli attaccanti».

Non è che questo modo di fare di Mourinho le ricorda qualcuno, per caso?
«Nils Liedholm, vero? Parliamo di due pianeti diversi. È vero che in qualcosa si somigliano. Dove Mourinho usa abilmente gli strumenti della moderna tecnologia, Liedholm si affidava agli aforismi oppure ai messaggi inviati per interposta persona. Spediva segnali. Magari buttava lì una battuta. Oppure il sabato dopo l’allenamento arrivava il suo vice, Luciano Tessari, e mi diceva: Ciccio, non è che questa settimana ti abbiamo visto tanto bene. E io: ascolta, dove devo andare, in panchina o in tribuna? Dimmelo subito. E lui: ma no, ma che dici, è che hai faticato un po’, e patapim e patapum».

Quindi non è un accostamento blasfemo il nostro.
«In un certo senso Mourinho e Liedholm sono simili. La differenza sta nel fatto che José, oltre a essere un grande tecnico, è un animale da social: li conosce, ha assorbito il loro linguaggio, lo ha filtrato attraverso la sua sensibilità . Liedholm, a parte il carattere completamente differente, com’è ovvio era costretto nell’ambito dei mezzi di comunicazione dell’epoca. E le sue osservazioni restavano tra noi, all’interno della squadra, mentre i messaggi di Mou girano il mondo».

Di carisma Mourinho ne ha da vendere.
«Certo. E io di allenatori carismatici ne ho conosciuti. Liedholm e Radice al vertice. Avevano caratteri diversi ma erano entrambi personalità straordinarie. Il Barone non dava confidenza a nessuno, con lui non si parlava liberamente: dovevi registrare le sue occhiate, i suoi aforismi e decifrarli. Radice non smetteva mai di stimolarti. Segnavi, la squadra vinceva, tu eri felice. Lui ti passava accanto e diceva: d’accordo, ma se non vai in gol anche domenica prossima è tutto inutile. Rispondevi: ma almeno stasera lasciami mangiare un piatto di pasta in pace, poi da martedì penseremo alla prossima partita. Lui, secco: martedì è tardi, facciamo lunedì».

Il rapporto di Mourinho con i tifosi, come annotava anche lei, è fortissimo.
«Si fa amare. Si concede. Si mostra riconoscente. Funziona a maggior ragione con Roma: Mourinho ha colto la passione che circonda la squadra e la sa gestire. Parla a settantamila persone con un movimento della mano. Il dialogo conta più dei risultati. Tifoseria e squadra sentono di avere qualcuno che li difende e li difenderà sempre. Da lui non mi aspettavo nulla di meno. Ero convinto che avrebbe avuto un impatto positivo a trecentosessanta gradi».

Liedholm era più distaccato.
«Aristocratico, quasi. Entrava in campo, si sedeva, non si guardava intorno. Eppure la gente lo ha amato ugualmente . Ma erano altri tempi, si giocava nel primo pomeriggio, due ore prima della gara c’erano già cinquantamila persone e allo stadio si sentiva l’odore dei panini».

Un patrimonio enorme.
«Enorme. Un affetto straordinario. E bisogna dare atto a Mourinho di aver recuperato questo coinvolgimento. In un club con proprietari che io neppure riconoscerei se li incontrassi per strada».

Qualche americanata sul mercato negli anni passati l’hanno fatta.
«Non nascondo che per un po’ ho sperato che portassero Lukaku alla Roma, tra una telefonata di Mourinho e una botta da matti imprenditoriale. Uno così ti prende sulle spalle la squadra e riaccende i sogni. Sarebbe bastato lui, oltre ai tre giocatori già presi, per chiudere alla grande la campagna trasferimenti e mandare tutti in ferie. Purtroppo non succederà».

Senza Champions certi giocatori guardano altrove.
«Vero, ma dall’altra parte c’è Roma, uno stadio che è un teatro e la possibilità di diventare un principe regnante in città».

Ci tolga una curiosità. Finale di Coppa dei Campioni 1984: Roma-Liverpool all’Olimpico. Lei sbaglia il rigore, alza gli occhi al cielo, fa un gesto come per dire: ho sbagliato, ma è un gioco. Che cosa ha pensato davvero?
«Ho pregato».

Perché?
«Ho guardato il cielo e ho pregato che quell’errore non ci facesse perdere. Facevo fatica ad accettare che un mio singolo tocco fuori misura avesse conseguenze tanto pesanti per i miei compagni e per un pubblico come quello».

Non è stato esaudito.
«Mi colpisce il fatto che i tifosi mi ricordano sempre quel rigore mentre con Bruno Conti non lo fanno. Gliel’ho chiesto: Bruno, ma a te rimproverano mai di avere sbagliato? No. E vabbè».


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