Roma e Mourinho, l'eterno ritorno

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Marco Evangelisti
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C ’è fascino e c’è languore, ci sono estasi e tormento in questo eterno ritorno dell’identico in cui la Roma inesorabilmente s’incastra, si dibatte, annaspa prima di riemergere. Sollevata fino alle rive dell’essere dalla mano robusta del suo allenatore carismatico, la mano che con ammiccante ironia ieri il tecnico avversario, quel Gabriele Cioffi che ha girato abbastanza mondo e abbastanza calcio da sapere come funzionano entrambi, ha finto di voler baciare. E Mourinho non gli aveva ancora sottratto con destrezza la partita. Talmente bollito, ribollito e digiuno di tattica, Mou, che a pura forza di cambi ha trasformato il risultato della giornata e, si può dire con una certa approssimazione, anche il destino del campionato. Almeno del suo campionato. Supponiamo non smetterà di lamentarsi di quantità e qualità della rosa adesso che tutto sommato quando si gira verso la panchina non scruta più un orizzonte deserto, ma trova sostegno tecnico e psicologico alle sue riflessioni di campo.

Le scelte dalla panchina

Può togliere Pellegrini, il cui palleggio - non l’impegno - è ancora fortemente attenuato dalla lunga inattività, e inserire una punta come Azmoun, sgangherata nei movimenti però dalla presenza invadente; può fare a meno dell’ordine costituito da Paredes per rivolgersi a Bove che in verticale o in orizzontale trova spesso lo smistamento giusto per spedire in stazione qualche treno. E così via. La sua combriccola di teneri banditi sta diventando una vera organizzazione diffusa sul territorio. Ma no, lui non smetterà di lamentarsi. Non sarebbe nel suo stile e comunque non basta un quinto posto a seppellire nell’oblio i limiti oggettivi della Roma. Guarda un po’: a gioco regolare non basta neppure per andare in Champions League. O magari sì, ma lo scopriremo solo in primavera. Se quei limiti fossero magicamente scomparsi, guariti durante la sosta del campionato assai meglio, per esempio, di Renato Sanches e Smalling, allora non saremmo costretti ad assistere all’eterno ritorno dell’identico. Alle vicissitudini di una Roma perennemente uguale a sé stessa, che prende le gare di petto, sembra in grado di addomesticarle, consente ai tifosi di sperare in un paio d’ore di rilassante diversivo.

Roma, la mano dell'allenatore

Poi comincia a perdere slancio, scopre i varchi vitali del centrocampo, non riesce più a giocare il pallone e neppure a portarlo a spasso. E come se fosse un segnale radio, in pochi minuti incassa il gol, anche per via di una difesa solubile e di un portiere tendente all’agorafobia non appena deve staccarsi dalla linea di porta (per il gol di ieri, a essere onesti, non è imputabile). E poi magari la squadra ne viene fuori. Sollevata dalla mano dell’allenatore. Oppure con i propri piedi, guidata dal paio di giocatori di altissimo livello su cui può contare, quelli che a forza di picchiare contro gli sbarramenti eretti dagli avversari li smontano. Oppure ancora in entrambi i modi. Non è una Roma drammaticamente diversa da quella della scorsa stagione. Per molti versi si comporta nella stessa esasperante maniera. Ha in più una certa varietà, non diremmo abbondanza, di alternative, il che lascia all’allenatore qualche margine di manovra. Ha in meno la spavalderia nell’azione difensiva, per via della mancanza del ministro designato Smalling. Condannata al suo eterno ciclo di sparizione e resurrezione. Non è necessariamente una buona notizia per chi la riteneva definitivamente perduta.


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