Brasile, quei due di picche ai signori del calcio

Leggi il commento sulla Nazionale brasiliana dopo i no di Ancelotti e Mourinho per la panchina
Marco Evangelisti
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I tempi, i costumi e le maglie psichedeliche. I portieri che salgono, insieme con la pressione arteriosa dei tifosi. Il possesso del pallone che affonda, i terzini che sbocciano e da specie in estinzione passano in cima alla catena alimentare, distruttori pentiti che si danno a creare. E così via, ne vediamo tante nel calcio di oggi. Ma i due di picche al Brasile, quelli non ce li aspettavamo davvero. E sì che il mondo invecchia, e invecchiando intristisce. E sì che il Paese del carnevale rotondo non vince il Mondiale dal 2002, e un Pallone d’Oro dal 2007, e adesso i tribunali gli destituiscono il presidente, e le leggende non nascono più là. E ci sono georgiani che dribblano meglio di un’ala destra nata a Rio e per qualche tempo la produzione più richiesta a marchio verde e oro non è stata la poesia del trequartista bensì la prosaica robustezza dei guardiani della soglia. Proprio là dove una volta finivano in porta quelli che non riuscivano a stringere amicizia con il pallone.

Brasile, i no di Ancelotti e Mourinho

Eppure è il Brasile, suvvia. Gli ha detto di no Carlo Ancelotti, e ci siamo: lui ha trovato quiete al Real Madrid, locomotiva della rivoluzione. Gli ha detto di no anche José Mourinho, per niente attratto dalla comunanza di lingua. Non è tipo da rifugiarsi nelle comodità, ammesso sia comodo oggi infilare le mani in un movimento talmente innervosito da mettere da parte persino la tradizione pressoché centenaria dell’autarchia tecnica. Dopo una serie di santoni, padri nobili, emigranti di rientro, traghettatori con appiccicata addosso ben visibile l’etichetta ad interim, hanno finalmente guardato oltre il confine e oltre il mare.

Allora, non c’è motivo di preoccuparsi per il Brasile. Ormai non si pone limiti. Se anche, scottato dai no, volesse accontentarsi di un mezzo consanguineo, potremmo suggerirgli Thiago Motta, nato lì e cresciuto qua con il Bologna che del Brasile ricorda a tratti le movenze musicali. O più banalmente a Pep Guardiola, aperto a ogni visione del calcio purché ampia e profonda. Forse non a Jürgen Klopp, indigesto per furore e ritmi. Ma sì a Roberto De Zerbi, capace di iniettare geometria nella verticalissima Premier. Potrebbe persino essere che il ct più adatto di tutti sia il nostro, Luciano Spalletti, imbattibile nell’addomesticare in schemi flessibili il talento puro. Tranquilli: sono idee gettate così, al vento. Chi ha allenatori buoni se li tiene stretti, a parte poche eccezioni.


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