Mancini, ogni cittì è solo sul cuor della terra

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Alessandro Barbano
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«Ognuno sta solo sul cuor della terra», recita una stupenda poesia di Salvatore Quasimodo, ma di tutte le solitudini quella del cittì è la più acuta, la più pesante. Non solo perché ciascun italiano vorrebbe stare al posto suo, ed è pronto perciò a farne il capro espiatorio di ogni sconfitta. Ma anche perché la Nazionale non sta nei pensieri dei governi, che fanno leggi contro i talenti italiani, non sta nei pensieri dei presidenti dei club, che con quelle leggi fanno affari, non sta nei pensieri di una parte dei tifosi, che sono capaci di fischiare Donnarumma, reo di aver lasciato il Milan per il Psg. Non sta nei pensieri di quasi nessuno, eppure tutti pretendono che la Nazionale faccia risultati, e s’indignano se non accade. Anche chi non ha condiviso la scelta di Mancini, non può ignorare il senso di isolamento con cui il selezionatore jesino ha dovuto fare i conti in tutti i cinque anni del suo mandato. E non può disconoscere che la vittoria degli Europei è frutto di un suo personale merito: l’aver puntato sulla coesione in un ambiente che la coesione ignora.

Ne è prova, al contrario, la pretesa di Aurelio De Laurentiis di far valere la clausola di non concorrenza contro Spalletti. I giuristi diranno se può esserci concorrenza tra un club e la Nazionale, ma certamente c’è nei pensieri del presidente azzurro. E questo basta a raccontare il clima in cui è maturata la decisione di gettare la spugna di Mancini, e in cui sta maturando la decisione di Spalletti di raccoglierla. Prima ancora di iniziare, il neocandidato cittì sta toccando con mano la stessa solitudine che ha fiaccato le energie e la fiducia del suo predecessore. Niente gli sarà regalato e nessun club rinuncerà ai suoi egoistici interessi in nome della solidarietà nazionale. Che è ancora un concetto sconosciuto per questa singolare classe dirigente, allevata sotto il campanile a coltivare il cinismo come fosse una virtù. De Laurentiis non prova nessun orgoglio che l’allenatore del suo scudetto sia chiamato a rappresentare l’Italia, pretende che il suo contratto capestro sia onorato, anche di fronte a una circostanza eccezionale come la guida della Nazionale, due volte esclusa dai Mondiali e chiamata tra tre settimane a una difficile qualificazione agli Europei. La sua ambizione di furbo mercante è volta a massimizzare i propri risultati, non a condividere grandi progetti con gli altri.

Lo stesso fanno molti suoi colleghi, quando fanno carte false - talvolta in senso non metaforico - per scongiurare la convocazione in azzurro dei propri gioielli, se c’è in vista un’importante partita di campionato o di coppe. Questi gesti raccontano il calcio come il lato oscuro dell’italianità, un’irredimibile stitichezza del cuore che rende irrespirabili perfino le passioni. La parabola di Roberto Mancini si svolge e si chiude dentro questo angusto contesto. Se il suo coraggio dei primi anni ha ceduto il passo a una difensiva prudenza, se l’intuizione di alcune novità tattiche si è smarrita dentro una confusa e inconcludente sperimentazione, ciò è accaduto perché la solitudine a un certo punto gli è parsa una camicia di forza sulla sua creatività e sulla sua autonomia. Spero di sbagliare, ma temo che finché un cittì starà solo, come lui è stato, sul cuor della terra, per la Nazionale sarà ancora subito sera.


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