Spalletti, intervista esclusiva: "Riporto Totti e Baggio in Nazionale"

Il Direttore del Corriere dello Sport-Stadio incontra il ct dell'Italia a poco più di un mese dall'inizio della fase finale degli Europei: "Lavoro, comportamenti e un'idea"
Spalletti, intervista esclusiva: "Riporto Totti e Baggio in Nazionale"© Getty Images
Ivan Zazzaroni

Profondità, sentimenti, anima, impegno, felicità e tristezza sono le parole che ricorrono spesso in questa chiacchierata con Luciano Spalletti, un botta e rispostona decisamente impegnativo. Dice il saggio (cinese) “l’uomo che non conosce la tristezza non ha mai pensieri profondi”. «E io la tristezza l’ho scelta e abbracciata lasciando Napoli dopo quella cosa là», confessa. Quella cosa là è lo scudetto - anche, se non soprattutto - della bellezza, Luciano lo ricorda così, quasi con pudore. «Sarebbe stato più facile e naturale andare avanti, lavorare con un gruppo che avevamo portato al top, godersi la felicità del momento, quella fatta provare alla gente di Napoli. Ho scelto la tristezza. Vedi…».

Vedo.

«In fondo a me è riuscito spesso di centrare l’obiettivo e quando lo centro vorrei tanto dare le spalle al mio divano, lasciarmi cadere all’indietro e fermarmi a guardare l’infinito, assaporando la felicità di chi ho reso felice». 
 
Luciano, un giorno De Rossi disse che sei l’allenatore che l’ha segnato di più e il migliore. Aggiunse che per motivi diversi anche Luis Enrique e Conte l’hanno segnato. Cosa significa quel «mi ha segnato»?

«Tu non lo puoi capire». 
 
Beh, ti ringrazio sentitamente.

«Perché è uno stile, un modo di parlare e ragionare. Per come ti sento e sento altri, penso non ti sia facile capire».

Stai andando malissimo.

«L’altro giorno mi hai detto che ti piacciono quelli che vincono. Ma così si perde l’essenza, sia la vittoria che la sconfitta sono lo stesso impostore. Perdere induce a riflettere, a ragionare sugli errori commessi per tentare di non ripeterli più. Vincere può distrarti dall’obiettivo, dalle cose che succedono durante il percorso. Le cose dell’anima, i sentimenti... Se il giorno dopo ti fermi alla vittoria non migliori, non cresci. Non è detto, poi, che, facendo le stesse cose, si possano ottenere identici risultati. Decisivo è il modo in cui riesci a relazionarti con i giocatori e i collaboratori, quanto sei in grado di renderli doppiamente forti e parte della stessa storia: uno più uno più uno al cubo insomma. Abbracci, sentimenti, solidarietà, capacità di coinvolgimento, tanto dipende da come si vivono i differenti momenti. Il calcio è semplice, ma non è semplice». 
 
Il teorico del calcio semplice è Massimiliano Allegri, ci ha titolato la biografia.

«A volte il calcio assume i connotati di chi lo complica. Anche voi giornalisti avete delle responsabilità, talvolta per sufficienza. Mettiamo la costruzione…». 

…la maledetta benedetta costruzione dal basso.

«Rende bene se rapportata con lo spogliatoio e con le caratteristiche dell’avversario». 
 
Ma comporta più rischi che vantaggi.

«È che adesso faccio questo e non mi è consentito dal ruolo: ma ammetto di aver pensato di venire un paio di volte in tv a parlare di calcio». 

La costruzione dal basso non può, né deve, essere un dogma.

«Io non ho dogmi di niente. Voglio essere pratico nella profondità: non conosco un solo modo di vivere, sono per le aperture e la conoscenza di più realtà e modi di pensare e fare. Da sempre considero Marcello Lippi una fonte di ispirazione: lo seguivo con attenzione, guardavo come si comportava, l’ho voluto incontrare per farmi spiegare il mondo azzurro nel profondo. Ma allo stesso tempo guardo a Sacchi come a un modello». 

I due poli.
 
«Mi piace prendere da tutti. Sono uno da sintesi ampie, amo approfondire, conoscere. Dell’avversario voglio sapere tutto, mi dà una notizia in più da trasferire alla squadra».  
 
Cosa o chi temi?
 
«Temo solo me stesso e di non aver fatto il possibile. Tutto deve dipendere da me, voglio farmi trovare pronto all’incontro con la felicità». 
 

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«Io sono fortunato perché ho sempre ottenuto quello che meritavo. Poi, certo, c’è anche chi ha culo. Talvolta il risultato dipende dalle capacità non solo tecniche di un calciatore, dal singolo episodio. A Napoli ci siamo sempre presi quello che avevamo costruito e meritato».  

 Il culo sistematico non esiste. Roba da fumetti, da Gastone di Disney. 

«Ma esiste il culo con la kappa. Domenica scorsa il Napoli avrebbe meritato di vincere e non ha vinto. Sono sfumature che ti fanno ripensare al comportamento tenuto».

Poi me la spieghi.

«Io non so allenare il cinismo. Allenare per me significa voler bene al calciatore, saperlo difendere, aggiungergli qualcosa. Esiste il calciatore timido che non riesce a esprimere totalmente il proprio potenziale e allora intervengo con il lavoro. Al Napoli ne avevo un paio. Ma adesso appoggia la penna». 
 
Agli ordini.

(Fa i nomi). «Con l’esercizio cerco di portare il timido nella condizione ideale per alzare il livello del rendimento. Non riesco a fare niente in superficie. Il primo anno a Napoli vivevo in albergo, magnifico, mi portavano la colazione in camera. Poi ho piazzato il lettino nell’ufficio. Per non perdere un solo secondo, anche il più piccolo particolare, mi risparmiavo la mezz’ora di auto da Napoli a Castel Volturno». 
 
Alla lunga risulti più usurato o usurante?

(Fa una lunga pausa). «Lavoro sodo. Sono usurante due volte per me stesso. Chi motiva se stesso fa capire chi è… Chi sa motivare gli altri fa capire dove vuole andare e arrivare». 

Hai mai subìto una decisione?

«Ho sempre deciso per me stesso. Il mestiere vuol dire 365 giorni di grande lavoro. Dopo il primo anno i miei collaboratori mi dissero “ma cosa restiamo a fare? Hanno venduto tutti”. Erano partiti Mertens, Koulibaly, Ghoulam, Ospina, Insigne, Fabian Ruiz. Tanta qualità. Io volevo sentirmi l’allenatore del Napoli e si è allenatori di una squadra soltanto se si fa qualcosa di effettivamente importante. Quando incontri De Laurentiis la prima cosa che ti dice è “secondi siamo già arrivati e dobbiamo stare sempre in Champions”. Messaggio chiaro e diretto. Così sono ripartito per ottenere quella cosa là, è successo, sarei potuto restare ancora, il grafico prestazionale l’avevamo portato al livello più alto». 
 
Avendo avuto modo di parlare qualche volta con De Laurentiis sto provando a immaginare un dialogo tra voi due. Il solo pensiero mi manda al manicomio.

«Io ho due orecchie e una bocca. So ascoltare e al momento giusto parlare. De Laurentiis ha una grande comunicativa, un linguaggio scorrevole. E poi dipende sempre dal De Laurentiis che ti ritrovi di fronte, ne esistono almeno quattro o cinque. Con l’intelligenza artificiale potrebbero provare a inventarne altri». 


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De Rossi ha qualcosa di te?
 
«Credo di conoscerlo molto bene. Penso che il principale merito di Daniele, per quanto sta dando alla Roma, derivi dal fatto che fin dal primo giorno non si è voluto approfittare dell’immenso amore che i tifosi nutrono nei suoi confronti. Ha capito subito che quello poteva essere un vantaggio-boomerang e l’ha messo da parte per investire totalmente nel lavoro sul campo. Sa bene che le idee possono portare allo stadio in festa solo attraverso gli allenamenti settimanali. Non so se Daniele abbia qualcosa di me, ogni tanto però mi ricorda Mazzone, quando gli scoppia la vena ha atteggiamenti che appartenevano al grande Carletto».
 
L’ultima volta che ci siamo sentiti hai detto che volevi vincere due partite con la Nazionale. Due-due o due in senso lato?
 
«Mi sentirò allenatore della Nazionale soltanto quando avrò portato l’Italia avanti nell’Europeo». 
 
A differenza di alcuni tuoi predecessori non ti sei ancora lamentato del ridotto bacino al quale puoi attingere.
 
«Che faccio? Accetto un compito e parto con gli alibi? La maglia della Nazionale è qualcosa di speciale. Quando arrivi in Nazionale sai che quella maglia la devi riempire. E la indossi per tutto il tempo. Devi allenarti bene nelle due ore dell’esercitazione, ma anche nelle 22 successive hai il dovere di tenere un comportamento adeguato. Meglio un giocatore un po’ meno qualitativo, ma moralmente integro. Tempo fa si è parlato anche troppo di una mia considerazione sul riposo, ossia sul fatto che bisogna essere riposati quando si va a giocare, questo banalissimo principio non può essere etichettato come codice Spalletti, ma come un dovere professionale inderogabile».
 
Immagino a chi ti riferisca.
 
«Non sforzarti, il discorso va interpretato in generale. Piuttosto...» 
 
... piuttosto cosa?
 
«...mi piacerebbe portare a Coverciano, quando ci ritroveremo per la preparazione agli Europei, quattro 10 mondiali, Baggio, Del Piero, Totti e Antognoni. Ne ho già parlato con Gravina. Pensa se quel 40 assistesse a un nostro allenamento: spingerebbe i ragazzi a elevare la prestazione... Presto partirà l’invito ufficiale della Federazione. Se vuoi posso parlarti anche di un 10 tra i pali e non solo». 
 
Che faccio? Rifiuto Gigi?
 
«Conoscevo Buffon come grande portiere, uomo di calcio e leader di spogliatoio, ma in questo periodo insieme ho capito che è anche un grande amico e che il dirigente sarà all’altezza del campione che è stato. Dimostra di possedere qualità e conoscenze anche in un ruolo completamente nuovo… E se le parole non arrivassero basterà guardarlo per comprendere dove vogliamo andare».
 
Torniamo a Gravina, c’è chi dice che ti avesse contattato molto prima di metà agosto?
 
«Chi racconta una fesseria del genere dimentica che fu Mancini a rassegnare le dimissioni e le diede all’improvviso. Incontrai il presidente per la prima volta nei giorni seguenti e posso dire di averlo visto in grande difficoltà».  
 
Per l’Europeo dobbiamo avere fiducia?
 
«La fiducia deve corrispondere all’amore che si prova per la Nazionale. Più la si ama e più fiducia si ha. Non dobbiamo temere nessuno, mettiamocelo in testa come chiodo fisso. Siamo il mezzo per raggiungere la piena felicità. La nostra e quella di chi ci vuole bene». 
 
«L’Italia è la ragazza che ti ha fatto perdere la testa a 18 anni». L’hai detto tu.
 
«Non è bellina?». 
 
E, dopo la Nazionale, che ne sarà di Spalletti?
 
«Vivo sempre come se all’ultimo istante potessi cambiare il mio destino».  
 
Per tutta l’intervista non ha smesso di ponderare le risposte, conciliando affondi autoanalitici e il momento del nostro calcio in acrobatico equilibrio tra doveri, etica, lavoro e responsabilità. Rispondendo alla domanda sul suo futuro si è concesso una chiosa alla Spalletti: «Il cuore ha le sue ragioni, ma talvolta la mente non le riconosce». 
 

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Profondità, sentimenti, anima, impegno, felicità e tristezza sono le parole che ricorrono spesso in questa chiacchierata con Luciano Spalletti, un botta e rispostona decisamente impegnativo. Dice il saggio (cinese) “l’uomo che non conosce la tristezza non ha mai pensieri profondi”. «E io la tristezza l’ho scelta e abbracciata lasciando Napoli dopo quella cosa là», confessa. Quella cosa là è lo scudetto - anche, se non soprattutto - della bellezza, Luciano lo ricorda così, quasi con pudore. «Sarebbe stato più facile e naturale andare avanti, lavorare con un gruppo che avevamo portato al top, godersi la felicità del momento, quella fatta provare alla gente di Napoli. Ho scelto la tristezza. Vedi…».

Vedo.

«In fondo a me è riuscito spesso di centrare l’obiettivo e quando lo centro vorrei tanto dare le spalle al mio divano, lasciarmi cadere all’indietro e fermarmi a guardare l’infinito, assaporando la felicità di chi ho reso felice». 
 
Luciano, un giorno De Rossi disse che sei l’allenatore che l’ha segnato di più e il migliore. Aggiunse che per motivi diversi anche Luis Enrique e Conte l’hanno segnato. Cosa significa quel «mi ha segnato»?

«Tu non lo puoi capire». 
 
Beh, ti ringrazio sentitamente.

«Perché è uno stile, un modo di parlare e ragionare. Per come ti sento e sento altri, penso non ti sia facile capire».

Stai andando malissimo.

«L’altro giorno mi hai detto che ti piacciono quelli che vincono. Ma così si perde l’essenza, sia la vittoria che la sconfitta sono lo stesso impostore. Perdere induce a riflettere, a ragionare sugli errori commessi per tentare di non ripeterli più. Vincere può distrarti dall’obiettivo, dalle cose che succedono durante il percorso. Le cose dell’anima, i sentimenti... Se il giorno dopo ti fermi alla vittoria non migliori, non cresci. Non è detto, poi, che, facendo le stesse cose, si possano ottenere identici risultati. Decisivo è il modo in cui riesci a relazionarti con i giocatori e i collaboratori, quanto sei in grado di renderli doppiamente forti e parte della stessa storia: uno più uno più uno al cubo insomma. Abbracci, sentimenti, solidarietà, capacità di coinvolgimento, tanto dipende da come si vivono i differenti momenti. Il calcio è semplice, ma non è semplice». 
 
Il teorico del calcio semplice è Massimiliano Allegri, ci ha titolato la biografia.

«A volte il calcio assume i connotati di chi lo complica. Anche voi giornalisti avete delle responsabilità, talvolta per sufficienza. Mettiamo la costruzione…». 

…la maledetta benedetta costruzione dal basso.

«Rende bene se rapportata con lo spogliatoio e con le caratteristiche dell’avversario». 
 
Ma comporta più rischi che vantaggi.

«È che adesso faccio questo e non mi è consentito dal ruolo: ma ammetto di aver pensato di venire un paio di volte in tv a parlare di calcio». 

La costruzione dal basso non può, né deve, essere un dogma.

«Io non ho dogmi di niente. Voglio essere pratico nella profondità: non conosco un solo modo di vivere, sono per le aperture e la conoscenza di più realtà e modi di pensare e fare. Da sempre considero Marcello Lippi una fonte di ispirazione: lo seguivo con attenzione, guardavo come si comportava, l’ho voluto incontrare per farmi spiegare il mondo azzurro nel profondo. Ma allo stesso tempo guardo a Sacchi come a un modello». 

I due poli.
 
«Mi piace prendere da tutti. Sono uno da sintesi ampie, amo approfondire, conoscere. Dell’avversario voglio sapere tutto, mi dà una notizia in più da trasferire alla squadra».  
 
Cosa o chi temi?
 
«Temo solo me stesso e di non aver fatto il possibile. Tutto deve dipendere da me, voglio farmi trovare pronto all’incontro con la felicità». 
 

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