Maradona, il profumo del calcio in purezza

Maradona, il profumo del calcio in purezza© EPA
Alessandro Barbano
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In un’atmosfera di giallo per le circostanze oscure del suo arresto cardiaco, di tensione per la guerriglia urbana che ha fatto da cornice all’esposizione del cadavere e di reciproco sospetto per la divisione dei suoi beni tra una pattuglia di eredi rivali, si è conclusa l’ultima metamorfosi di una solitudine assoluta. Passaggio dallo stato di vivente morto a quello di morto che vive, grazie alla memoria che, già in queste ore, è un ? ume che percorre il pianeta. Così Maradona se n’è andato davvero, eternandosi.

Ha spezzato quel simulacro di esistenza che si protendeva oltre il limite della sua prima morte, avvenuta il 25 giugno del 1994. Quando il test antidoping seguito ad Argentina-Nigeria gli sfilò il pallone dai piedi, come nessun avversario avrebbe mai saputo fare. Maradona senza pallone è un Van Gogh o un Caravaggio senza tavolozza. Un genio tormentato a cui una sorte crudele ha riservato il supplizio di assistere, per ancora un quarto di secolo, alla sua fine. Adesso la sagoma del Pibe si libra leggera per l’infinito universo virtuale di cui sono fatte le nostre vite, sopra le bandiere a lutto, le città trasformate in santuari, gli stadi e le piazze che si tingono del suo nome, le retoriche e le celebrazioni di quanti, tanti in verità, lo santificano, perdonandogli anche ciò che non ha commesso, non senza segnalare che, per un caso del destino, la loro avventura s’intrecciava con la sua. Se in vita il fondo della sua anima è stato il letto di un fiume su cui - come scrive Ruggero Cappuccio sul Mattino - ci arrivava di tutto, pietre, immondizia e diamanti, in morte è una pergamena autografata dal campione, su cui ciascuno vorrebbe scrivere a caratteri indelebili la memoria della propria vita.

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Forse solo Insigne, la cui solitudine, nel suo piccolo, è fatta a immagine e somiglianza dell’argentino, sente tutta intera la potenza del vuoto che si spalanca dietro la sua partenza. Mai più - dice - nessuno indossi la maglia numero 10. L’hanno portata in questo quarto di secolo con dignità, e talvolta con merito, tanti campioni, fuoriclasse o, come si dice di questi tempi, top player, paladini di una città e di una stagione, che pure nel giorno dell’addio hanno fatto piangere migliaia di tifosi, e di cui magari si ricorda ancora un gesto atletico o un gol clamoroso. Ma tutto è improvvisamente piccolo rispetto all’immensità di quest’assenza. Capace di commuovere il mondo come nessun vivente, morendo oggi, potrebbe fare. E di mostrare la vanità della morale che dice: “Come si fa a parlare di calcio con i morti per strada?”.

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Sfibrati ed esausti nel calvario di una pandemia che non passa, scopriamo nella seconda morte di Maradona un’occasione per riconciliarci con l’inessenziale di cui è fatta la nostra vita. Perché questo lui era, il calcio in purezza, e nient’altro. Passione che si divinizza o si demonizza, perché si fa fatica a spiegare come possa stordirci tanto, venendo da un pallone. La nostra finitezza ci pare sempre troppo piccola per contenerla tutta.

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Maradona, che parlava di sé in terza persona non per arroganza, bensì per umiltà, portava sulle spalle il peso di questa intuizione, per lui naturale, che alla fine lo ha sopraffatto. Come Jean-Baptiste Grenouille, l’eroe tragico di un bel romanzo di Patrick Suskind, inventore e vittima di un profumo capace di scatenare un amore insaziabile, che lo divorerà. Ma ora che tutto è finito, la memoria dei gol del Pibe è una fragranza intensissima, che il vento del desiderio diffonde per ogni dove.


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