Pagina 0 | Maurizio Sarri, l'asso delle toppe
Ora tocca a lei, Maurizio. L’onere e l’onore, la fatica e il numero da prestigiatore, il desiderio di essere come tutti e la certezza di doversi dimostrare diverso. Più forte del pregiudizio e della grande confusione sotto il cielo che a certi filosofi cinesi sembrava la più eccellente delle condizioni per emergere e a lei, probabilmente, pare soltanto un ritorno alle origini, una madeleine dell’epoca in cui per cucinare, in mancanza di derrate, la fantasia era l’ingrediente più importante per mettere in tavola qualcosa di commestibile. Ne “Il pasto nudo”, scritto da uno dei suoi romanzieri preferiti, Burroughs, la perdita di senso è il motore per tentare di dare ordine alle allucinazioni, riappropriarsi di un’identità e sfuggire al controllo di censure sempre più aggressive. Non parla della Lazio di oggi, ma potrebbe. In una situazione territoriale ormai “drogata” da malumori, rivendicazioni, marce, provocazioni, comunicati stampa lisergici e da ventuno anni di convivenza in cui al pubblico pagante, la separazione in casa, non basta più a non sentirsi in prigione, per guardare al futuro con fiducia serve che qualcuno provi non solo a parlare d’amore, ma riesca di nuovo a far battere il cuore.
Che lo voglia o meno, signor Sarri, tocca a lei. L’abbiamo investita di questo ingrato compito, ci siamo baloccati nella speranza dell’ultima favola fuori tempo massimo, abbiamo fatto il pieno di egoismo un po’ perché il serbatoio dell’altruismo non ha più una goccia per arrivare al metro successivo e un po’ perché di un lieto fine che ratifichi una tregua e ci faccia abbracciare abbiamo un improcrastinabile bisogno. È senz’altro vero che dalle parti della Lazio, il conflitto, in altri contesti e in altri decenni, è stato foriero di risultati impensabili. Ma esiste un punto di rottura in tutte le cose e le crepe nella parete, in un luglio che secondo Riccardo Del Turco non sarebbe mai dovuto finire, ma che a guardare il calendario ha già divorato un terzo dei suoi giorni, somigliano a voragini. Cosa vogliamo da lei, Maurizio? Che le ripari? Che metta il suo corpo tra le mura e il crollo? Che si sacrifichi per la causa quando la causa stessa è di difficile definizione? No, sarebbe uno spreco di intelligenza e di talento.
Le abbiamo sempre riconosciuto entrambe le doti e non ignoriamo che dell’una e dell’altro c’è una necessità assoluta. Noi sogniamo, signor Sarri, che lei disponga i mobili in maniera che al prossimo uragano - verrà, è ciclico, non c’è da dubitarne - le macerie non seppelliscano anche ciò - non è poi così poco - che va salvato. Noi desideriamo, dopo aver ottemperato al nostro dovere da tifosi - esserci e sostenere la squadra come è sempre accaduto, anche quando in ritiro chiedevamo l’autografo a Sgarbossa e a Magnocavallo - che il famoso progetto, l’equivalente calcistico delle chiacchiere pseudosociologiche che hanno al centro della discussione la categoria più virtuale che ci sia, i giovani, finalmente, si manifesti. Che duri più di un malumore passeggero, che covi una visione, che abbia una prospettiva, che replichi quello che in altre città, Bologna, Bergamo è diventato realtà da più di un lustro. La curva nord vuole vincere sento cantare allo stadio. E quando ascolto quel coro penso che ci sono tante strade per realizzare l’auspicio anche senza arrivare primi.
Lei ne ha battute molte, alcune erano polverose, altre lastricate d’oro. Si è spesso trovato a suo agio nelle prime perché sporcarsi non la spaventa e sospettiamo che arrivato a sessantasei anni, più che far fallire le feste come Jep Gambardella, ne voglia fare un’ultima, memorabile, che omaggi quelle precedenti e se possibile le faccia impallidire. Parole, parole, parole, lo sappiamo, signor Maurizio. Ci è rimasto solo questo e forse il parlarsi addosso è uno degli aspetti del problema, ma al di là delle indignazioni corporative e di un vago senso di vertigine dettato più dallo straniamento che dal caldo, non ci dispiace poi troppo che lei oggi non parli con la stampa. Quando eravamo piccoli sapevamo godere del silenzio e non consideravamo delittuoso non esprimere un’opinione su ogni aspetto dello scibile. Quindi ci asterremo dal giudicare e diremo soltanto che sospettiamo non abbia lasciato affranto neanche lei perché alla fine, quello che vuole è annusare l’odore dell’erba e tornare bambino, almeno per un istante. È il nostro stesso sentimento, la nostra ambizione più inconfessabile, la ragione per cui la domenica ci mettiamo in cammino. L’accendino è scarico, Maurizio. Ci restituisca il carburante, la scintilla, la fiamma. E non sarà un fuoco fatuo. E ce ne parli, come e quando crede, tanto se ha deciso di restare non brucerà la casa. Noi crediamo in lei, comandante, perché, se non altro, lei ha creduto in noi. Quindi si lasci andare, Maurizio. Si abbandoni alla stagione più complicata che le avrebbero potuto preparare, ci sorprenda e non ascolti nessuno.
Faccia come vuole perché se andrà male non debba nutrire il rimpianto di essersi piegato al compromesso e se andrà bene, a svelare i segreti del prodigio, potrà essere soltanto lei. Abbiamo bisogno di una bella storia. Una di quelle storie che questa squadra conosce che splenda il sole o infuri la tempesta. Accettare questa Lazio, non solo senza possibilità di fare mercato, ma anche senza il sollievo dell’illusione circense sotto l’ombrellone, lo è già senza ancora aver visto un solo minuto di calcio giocato. È un ritorno che ispira benevolenza, perché non tutte le opere d’arte vanno completate, ma a volte si possono persino migliorare. Ed è un’impresa a metà tra incoscienza e passione. Conservi entrambe per i giorni duri e si ricordi che lei, forse è la prova, che non è mai tardi per iniziare a costruire. Ungere non le è mai garbato, blandire l’interlocutore ancor meno. Quando ha detto che la lazialità «ti entra dentro e ti rimane nell’anima» non l’ha fatto per compiacere i tifosi o per concedere a chi la osservava ciò che le orecchie volevano sentire. L’ha detto perché lo pensava e dobbiamo ipotizzare che sia tornato perché ciò che resta non muore mai.