Intervista a Galliani: “Discutere Allegri? Ma di cosa parliamo!”

"Scudetti, coppe e due finali Champions, questo è Max. Intoccabile. Vivo dentro un sogno, il Monza è come una missione. I figli di Berlusconi sanno quanto il loro padre amasse questo club"
Ivan Zazzaroni
8 min

Da monzese acquisito gli do del tu da qualche anno: è stato lui a vietarmi il lei. L’appartenenza, per Galliani, è un visto d’ingresso nel confidenziale. «Il senso di appartenenza nei confronti di un luogo è una sensazione magica e spesso inspiegabile» dice.

Adriano, trentasette anni da dirigente e nessun momento di stanchezza?
«No no no. E poi perché trentasette?».

Il 24 marzo dell’86 diventasti amministratore delegato del Milan.
«Già, e i primi dieci anni da dirigente del Monza, del quale sono stato anche proprietario, li vogliamo buttare?». E comincia a infilare date e numeri con precisione brianzola, ancorché leggendaria ormai: da questo punto di vista Galliani vanta decine di tentativi di imitazione. «Fine settembre ’75 entro nel Monza, nel ’79 incontro Berlusconi, senza quei dieci anni, quella gavetta, non mi avrebbe mai affidato la gestione del Milan».

Facciamo quasi 50 e non se ne parla più.
«Stanco io? Sono carico a pallettoni».

Ma cosa rappresenta il Monza per il calcio italiano?
«Un unicum. Qualcosa di diverso da tutto il resto, il senso di appartenenza come principio fondamentale e valore coltivato con orgoglio. Il capo azienda, il sottoscritto, è nato a Monza e il capitano pure. Matteo Pessina, che è indiscutibilmente un ottimo giocatore, ha solide radici monzesi».

Insomma, un Athletic Bilbao de noantri. Il senso di appartenenza l’hai sviluppato anche dal punto di vista contrattuale: metà dei giocatori in rosa è rappresentata dallo stesso agente, Beppe Riso.
«Questa è una leggenda metropolitana. Molti dei nostri sono seguiti da Tullio Tinti, Ciurria e Colpani ad esempio. Riso lo stimo molto, lo conosco da quand’era ragazzo. I due giocatori al momento più chiacchierati, Colpani e Di Gregorio, sono uno di Tinti, appunto, e l’altro di Belloni».

Colpani sembra lanciatissimo.
«Nessuno si è fatto vivo con noi per parlare di Colpani. Ha cinque anni di contratto, siamo a dicembre e fino a giugno e oltre non è trattabile. Diverso è stato il discorso per Carlos Augusto, che aveva ancora un anno e volendo diventare terzino del Brasile chiese di andare all’Inter. Ha avuto ragione: giocando con noi un’intera stagione non era mai stato considerato, sono bastate poche presenze nell’Inter e le porte della nazionale si sono aperte. Succedeva la stessa cosa al Milan: bastava indossare quella maglia per catturare l’attenzione dei vari selezionatori».

Qual è il futuro del Monza? In città è argomento di continua discussione?
«La permanenza in serie A. Negli ultimi anni la distanza tra le squadre che partecipano alla Champions e le altre è aumentata in modo esponenziale, a questo aggiungo che nella discussione dei diritti televisivi quelli della Champions salgono sempre, mentre il campionato scende. Il Monza fattura 60, 70 milioni, Inter, Milan e Juve viaggiano tra 400 e 500».

In tribuna ti vediamo un filo più trattenuto rispetto al lungo e felice periodo milanista.
«Siete distratti. Vivo il Monza con un’intensità emotiva sconvolgente, come un pazzo. Ieri sera ero con la squadra, anche giovedì scorso. Sono in un sogno, la mia è totale beatitudine. Quando in Lega calcio fanno l’appello e sento chiamare, nell’ordine, Milan, Monza, Napoli, mi emoziono. La mia non è una semplice gestione, ma una missione. Quando il 29 maggio 2022 a Pisa siamo stati promossi ho pianto come un bambino, ho provato le stesse sensazioni di Barcellona, 24 maggio ’89. Ma mi hai chiesto del futuro del club».

Giusto.
«La fortuna del Monza sono i fantastici figli di Berlusconi, hai visto anche con quale civiltà hanno risolto la questione del testamento, fatto assolutamente insolito per le più importanti famiglie milanesi. Sanno con quanto amore il loro padre guardasse al Monza, forse la cosa che abbia più amato negli ultimi anni, ricordo che gli si illuminava lo sguardo quando veniva allo stadio... Un giorno troveremo un partner, chissà, il tema non è di stretta attualità».

Hai vissuto l’età dell’oro del calcio italiano. (Mi interrompe).
«Non ho alcuna intenzione di fare la parte del guru, del suggeritore estemporaneo di soluzioni. Cambiamo discorso, restiamo nel mio».

Ti stavo domandando altro: come definiresti il momento attuale e soprattutto come lo vivi da dirigente di una provinciale?
«Il calcio riflette la condizione economica del Paese. Trenta, quarant’anni fa Roma era caput mundi, sauditi e coreani non avrebbero mai potuto contrastare la candidatura della capitale. Oggi il 60% del pil mondiale appartiene a Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, non a caso la Fifa ha captato il cambiamento e organizzato il Mondiale per club da quelle parti. Eravamo un campionato di arrivo, ora lo siamo di transito, con una capacità di spesa non concorrenziale con gli arabi e non solo. L’ultimo Pallone d’Oro della serie A è Kakà, 2007».

Stasera ritrovi Allegri, un allenatore al quale sei molto legato.
«Da affetto e stima inattaccabili. Lui ha chiuso col Milan il 25 gennaio 2014, da allora il nostro rapporto si è addirittura consolidato».

Cosa deve fare un allenatore per piacerti?
«È esattamente come con una donna: o ti innamori oppure la lampadina non si accende».

Lascerei stare lampadine e altre accensioni. Sorride.
«Sì, lasciamo perdere le lampadine. Dopo lo scudetto col Milan, Max ha vinto cinque campionati di fila con la Juve, quattro Coppe Italia, due supercoppe italiane e disputato due finali di Champions, perse con club del tutto sconosciuti, il Real di Ronaldo e il Barcellona di Messi. Ma di cosa cazzo vogliamo parlare!... Aspetta: sostituisci la parolina e metti cosa».

Fatto (...).
«Con Palladino l’innamoramento è scattato. E in seguito lui ha superato la prova finestra».

Mi ricorda un vecchio spot.
«Di un detersivo, se non sbaglio... Io indicavo l’allenatore e lo portavo ad Arcore dal presidente per la benedizione».

Da quella finestra qualcuno è saltato?
«Più di uno, ma non faccio nomi. Né cognomi. A Palladino avevo suggerito di andare in panchina durante la sosta evitando proprio Monza-Juve per non bruciarsi. Niente: ha voluto cominciare subito e ha firmato la prima storica vittoria sulla Juve in serie A. Forse stasera prenderemo cinque gol, resta il fatto che con la Juve non ne abbiamo ancora subiti, due partite e porta illibata. Tornando a Max, come ho raccontato alla Bocci lo portai ad Arcore il giorno della finale di Champions Inter-Bayern. Non si trattò di una cena, ma di un pranzo perché mi aveva chiesto di rientrare a Livorno per vedere la partita da casa. Ricevette la benedizione del presidente e ripartì... Monza-Juve mi riporta a mia mamma che a 7, 8, 10 anni mi accompagnava allo stadio e ripeteva che un giorno il Monza avrebbe giocato in serie A. L’ho persa quando ne avevo meno di 15. Per cui posso serenamente affermare che il legame con questa società ha qualcosa di spirituale, riunisce due anime. Ed è l’effetto di un’autentica e prepotente vocazione». 


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