Napoli, la squadra che pensa come uno solo

Napoli, la squadra che pensa come uno solo© FOTO MOSCA
Alessandro Barbano
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Vedi il Napoli e poi piangi. Piangi per la sua prevaricante bellezza, per quel sentimento collettivo di riscatto che cova e cresce dentro le magie di Kvara, le pennellate di Zielinski, la spietatezza di Raspadori, la fantasia di Lozano. Quando il calcio arriva così in alto, l’agonismo smette di essere virtù dei corpi e diventa energia spirituale. Che dal campo si spande per ogni dove. La città che vive nella inguaribile nostalgia del suo idolo ritrova il presente perduto trent’anni fa: Maradona è MaraNapoli, una squadra intera identificata nel mito. Le imprese fin qui compiute da questo gruppo sono già un prodigio della qualità. Perché è vero, il Napoli guida la classifica in campionato e in Coppa, vince da nove partite consecutive, ha fatto una caterva di gol, trentanove. Ma più di tutto ha l’umiltà degli angeli. È un angelo il georgiano, che dopo essere sfuggito almeno quindici volte alla marcatura avversaria, torna puntualmente nella sua area a coprire su Bassey. Sono due angeli custodi Lobotka e Anguissa, la cui segreta alleanza disegna a centrocampo un labirinto in cui non c’è Teseo che possa trovare via d’uscita. Ma sono angeli anche l’ispirato Zielinski, finalmente padrone dell’invenzione, il desiderante Lozano, l’oculato Di Lorenzo, il coraggioso Olivera, il timido ma agile Meret, e poi ancora il pugnace Kim e perfino il diligente Juan Jesus, punito senza colpa con un rigore improbabile. 

È un gruppo che pensa come uno solo. È uno solo che segna il secondo gol, perché nell’azione c’è un’unica testa pensante. Sta in panchina e si chiama Luciano Spalletti. In lui la teoria e l’applicazione si compenetrano. Lo schema con cui Zielinski, Kvara e Raspadori piazzano la palla nel sette del portiere avversario è un teorema con annessa la dimostrazione. Simile a quelli studiati e mai compresi a scuola. Invece qui tutti sembrano averlo imparato e digerito, tanto che lo reinterpretano secondo necessità. C’è uno spazio sulla fascia? E via con una triangolazione che smarca gli azzurri per un affondo verticale, su cui l’Ajax comprende quanto effimera e agée sia la sua fama di squadra palleggiatrice. Poi, certo, valli a trovare quattro attaccanti che calciano indifferentemente di destro e di sinistro, come Raspadori, Kvara, e gli stessi Osimhen e Lozano. Non sai mai da quale parte coprire il tiro, perché le opzioni con loro sono sempre almeno due. Lo scugnizzo che sta al centro dell’area di rigore è nato a Bologna, ma un gol così non l’aveva mai segnato prima di arrivare a Napoli. Perfido come solo certi bambini sanno essere da queste parti, dove la tecnica coincide con l’astuzia. 

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Ce n’è per tutti. Perché segnano in quattro, e per poco non riesce anche a Politano di fare secco un già umiliato Remko Pasveer. Il gol di Osimhen è un'eruzione di desiderio che dopo tre fuorigioco trova il suo cratere. Con lui il Napoli cambia ancora gioco, e dimostra quanto ricco e vario sia il suo repertorio. Vista ieri, sembra una squadra senza limiti, ancorché fatta di una disarmante bellezza. Ed è questo insieme il suo valore e la sua fragilità: non ci sono bastioni a presidio di Meret, anche la difesa del risultato è una questione di armonia, invenzione, intesa, complicità. E coraggio. Le doti che fanno il carattere, che fin qui scongiurano lo scolorar del sublime nella tragedia, con cui il Napoli ha fatto i conti nelle passate stagioni. Stavolta no. Ci sono già dodici partite di campionato e Coppa e trentanove gol a dire che non accadrà. Che l’armonia cucita come una seta superba sulla passione di una grande tifoseria può proteggerla dal rischio che l’incantesimo si spezzi. Il sarto è lì, che si agita in panchina, spiritato come solo i predestinati sanno essere, dubitativo come gli uomini che, soffrendo, hanno incontrato il limite. Spalletti ha imparato, stavolta non può sbagliare. 


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