Napoli, questione di testa

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Napoli, questione di testa© LAPRESSE
Alessandro Barbano
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C ’è una sola squadra in buona salute tra le big sulla carta candidate al titolo. Ed è l’Inter. E c’è una squadra irriconoscibile rispetto allo scorso campionato. Ed è il Napoli. In mezzo stanno Juve e Milan. La prima con le sue strutturali lacune, il secondo con la sua discontinuità di rendimento e l’irrisolto slabbramento tattico. A cinque giornate dal via questa è la fotografia del campionato. Rovesciata rispetto alla stagione scorsa, in cui l’Inter è caduta tredici volte e in cui il Napoli è partito a razzo. Se cerchi nel campo uno specchio ai risultati, vedi l’egemonia del centrocampo di Inzaghi, dove l’innesto di Frattesi e la duttilità tattica di Mkhitaryan danno l’idea di un saldo governo del gioco. E vedi per converso lo sfilacciamento della mediana di Garcia, dove Lobotka osa di meno e sbaglia di più, Anguissa corre troppo e con disordine, Zielinski non punge come potrebbe, e i sostituti, che siano il frustrato Elmas o il novizio Cajuste, sembrano personaggi in cerca d’autore. E se fosse proprio l’autore a fare qualche confusione di troppo?

Perché è vero che, a posteriori, si può dire tutto e il suo contrario. Però il ruolo di ala destra di un 4-3-3 è per Raspadori una posizione contro natura, per chiunque conosca, pur mediocremente, il calcio e il Napoli. Per usare una metafora, è come chiedere a Barry White di cantare da soprano. Però, ancora, sostituire al 75’ Kvara con Elmas, anziché con Simeone, quando si tratta smuovere una gara inchiodata sul pareggio, è una mossa discutibile. Che diventa poi incomprensibile se dieci minuti dopo Simeone entra al posto di Osimhen, che ha fallito un rigore e che di tutto stavolta ha bisogno tranne che di uscire dal campo. Però, infine, inserire sempre in zona Cesarini la timidezza di Cajuste, al posto di Lobotka, vuol dire consegnare al Bologna il controllo mentale della partita negli ultimi minuti. Quello del tecnico francese è uno spartito che si fa fatica a comprendere. E la tensione palpabile in campo dimostra che questa difficoltà di linguaggi sta anche nello spogliatoio.

Certo, il pari di Bologna potrebbe anche starci, se il Napoli non avesse sette punti di distacco dalla vetta dopo appena cinque gare. Perché gli azzurri hanno dominato e fallito un rigore, schiacciando costantemente gli uomini di Thiago Motta nella loro metà campo. Ma quanti tiri in porta hanno fatto? Quante azioni davvero pericolose hanno confezionato? La risposta è due e mezzo. Quella del palo di Osimhen, quella che ha propiziato il tiro dagli undici metri fallito dal nigeriano, e il tiro di poco alto di Raspadori allo scadere del primo tempo. Perché così poche? Da qui bisogna partire per capire la crisi del Napoli. Che ha disimparato a palleggiare veloce, condannandosi alla prevedibilità.

Che fa fatica a giocare tra le linee, a far scattare automatismi e sovrapposizioni che inneschino una discontinuità tattica. Che non ha la mentalità e il carattere di chi vuole il risultato a tutti i costi. Lo vedi perfino dall’atteggiamento del migliore degli azzurri, Osimhen, che a Bologna si è mosso con il consueto impegno, ma con una determinazione e una propensione a finalizzare incomparabilmente inferiore rispetto all’avvio della scorsa stagione. Gli uomini sono gli stessi, eccezion fatta per Kim, il cui sostituto, Natan, al netto della diligente prova di ieri, è ancora tutto da testare. Ma la testa è cambiata. Bisogna che torni al più presto quella di prima, se il Napoli non vuole gettare alle ortiche una stagione ancora recuperabile.


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