D’Amico, l’artista geniale di una Lazio senza tempo

La maglia numero 11 di Manservisi, i primi stipendi nel libretto postale, la tripletta al Varese con sette punti di sutura al polpaccio: da golden-boy a leader nelle partite impossibili
D’Amico, l’artista geniale di una Lazio senza tempo© ANSA
Stefano Chioffi
11 min

Hotel Bucaneve, Pievepelago, settecento metri di altezza, boschi e torrenti: la Lazio di Lenzini e Maestrelli trascorreva ogni ritiro estivo in questo angolo dell’Appennino modenese. Gli allenamenti, le partite a carte dopo cena, tra una fetta di crostata e un bicchiere di vino, la sala biliardo, la piscina. Si viaggiava in pullman e quei ricordi entravano spesso nei racconti di Vincenzo D’Amico. Partivano la mattina presto dal parcheggio del centro sportivo di Tor di Quinto. Qualcuno, come Chinaglia, arrivava in ritardo all’appuntamento e prendeva al volo un caff è nella piccola cucina del custode, che tutti chiamavano Pelé per la somiglianza con il campione del Santos. L’autostrada del Sole, il mangianastri con le cassette di Lucio Battisti, l’uscita al casello di Firenze, poi Prato e Pistoia, curve e tornanti fi no a Pievepelago. Gli occhiali Ray-Ban di Wilson, il quaderno e il fumo delle sigarette di Maestrelli, che parlava di schemi e dell’Ajax di Kovacs e Michels con il suo amico fraterno Lovati, la complicità di Re Cecconi e Martini, appassionati di moto e paracadutismo, la forza aggregante di Pulici, i silenzi di Frustalupi, l’empatia di Oddi, cresciuto al Tufello, scoperto sui campi dell’Almas, e legato a Chinaglia dai tempi del servizio militare, nella caserma della Cecchignola. Quattro ore insieme, dentro il pullman guidato da Alfredo Recchia, autista e confidente della brigata di Long John, mentre si stavano creando le basi per uno scudetto da leggenda.

D'Amico, la maglia numero 11 di Manservisi

D’Amico era il sorriso e l’allegria di quella Lazio. Era nato a Latina, ma sembrava un brasiliano arrivato dal Flamengo, dal Palmeiras, dalla spiaggia di Copacabana. Tecnica deliziosa, dribbling, nascondeva il pallone, era un prestigiatore. Faccia da bambino, era il cucciolo del gruppo, Maestrelli lo trattava come un figlio e ogni tanto lo invitava a pranzo nel suo appartamento in via Guido Banti, sulla collina Fleming. Lo considerava un altro fiore della sua famiglia. Gli spaghetti al pomodoro, la bistecca ai ferri, a cucinare era la signora Lina, la moglie dell’allenatore più amato nella storia della Lazio. Tommaso sapeva leggere negli occhi di D’Amico, che continuava a nutrire una riconoscenza eterna verso quel signore in tuta, con i capelli brizzolati, dai toni pacati, al quale era abituato a dare del lei. Maestrelli sapeva guidarlo con saggezza e affetto, in un calcio diverso da quello di oggi, ma dove era facile lo stesso bruciare gli stipendi per una spider e dietro ai tavoli di un night. Lo consigliava come un papà: il primo anno decise - d’accordo con il presidente Lenzini - di fargli accreditare quasi tutti gli stipendi su un conto postale. E per qualche mese gli tolse anche la patente, perché aveva saputo che ogni tanto Vincenzo andava a letto tardi. Un legame forte, d’acciaio. Dopo il suo primo campionato da titolare, con la maglia numero 11, ereditata da Manservisi, ritrovò i suoi risparmi sul libretto e comprese il valore di quegli insegnamenti. Maestrelli si raccomandava di fare attenzione anche ai carboidrati, alla pasta, ai dolci, all’alimentazione, perché il terzino più complicato da affrontare per Vincenzo era proprio il peso, la bilancia, l’appetito. L’allenatore lo teneva a dieta, soprattutto dopo il primo infortunio al ginocchio che aveva rischiato di rovinare la carriera del golden-boy, soprannominato così dai cronisti che frequentavano Tor di Quinto.

D'Amico, l'amore per la Lazio

Ha amato la Lazio e la vita: ha saputo riempirle di emozioni e purezza. Quel film così bello, dopo gli anni del settore giovanile, era cominciato nel 1973, dentro il pullman che portava una squadra strepitosa e irripetibile fino all’albergo Bucaneve di Pievepelago: un ingresso quasi hollywoodiano, perché la sorpresa del ritiro fu la visita di Sophia Loren. D’Amico era un libro da sfogliare. Laziale vero, nella sua concezione il calciatore doveva nutrirsi di ideali. Poteva terminare un contratto, ma mai un rapporto di fedeltà. È stato uno dei primi giocatori a frequentare i salotti delle tv. Era brillante, aveva un’intelligenza vivace e la capacità di accendere l’immaginazione di chi lo ascoltava. Come quando si fermava a raccontare il primo gol in serie A: 27 gennaio 1974, l’anno dello scudetto, 4-0 al Bologna di Savoldi e Bulgarelli, il portiere era Buso. Lo sguardo verso il cielo, un premio da lassù. Scoppiò a piangere, le mani sul viso, l’abbraccio di Chinaglia, Nanni e Garlaschelli. Ha attraversato nella Lazio epoche diverse. Ha conosciuto la felicità e le cicatrici. La malattia di Maestrelli, la salvezza a Como nell’ultima giornata del campionato 1975-76, la tragica morte dell’allenatore-papà, il dramma di Re Cecconi in una gioielleria di via Nitti. E poi il dolore del calcio-scommesse, quando si ritrovò a vincere da solo all’Olimpico una partita decisiva contro il Catanzaro di Mazzone, con Bob Lovati in panchina e tanti ragazzi della Primavera - Budoni e Perrone, Pochesci e Cenci, Scarsella e Campilongo - inseriti in prima squadra dopo le squalifiche di Cacciatori, Wilson, Manfredonia e Giordano. Era il 30 marzo del 1980: 2-0, gol di D’Amico e autorete di Groppi.

D'Amico, la cessione e la nostalgia della Lazio

Quell’estate, però, la Lazio fu retrocessa in B dal giudice sportivo: come il Milan. Il processo, la denuncia di Trinca e Cruciani, le partite truccate, la condanna del club romano, travolto da un mondo sommerso che era venuto a galla. E così, una mattina, prima che Vincenzo partisse per le vacanze in Sardegna, il presidente Lenzini lo chiamò al telefono: “Devo parlarti, ti aspetto in sede”. Via Col di Lana, era estate. D’Amico aveva deciso di scendere in B con la sua fascia di capitano. Ma la Lazio conviveva con i debiti, aveva bisogno di soldi: “Ti abbiamo venduto al Torino, devi andare per il bene della società”. Affare chiuso la notte precedente: mezzo miliardo più la comproprietà dell’ala destra Greco. I tifosi si ritrovarono, nel giro di poche ore, al bar Vanni, davanti agli uffici della Lazio, per contestare Lenzini. D’Amico si fermò a parlare con loro. Il presidente Orfeo Pianelli, industriale, campione d’Italia nel 1976, ex operaio che da ragazzo timbrava il cartellino in Fiat, lo aveva scelto come erede di Claudio Sala, ceduto qualche giorno prima al Genoa. Impatto positivo, la convocazione in Nazionale, la stima di Bearzot. Ma aveva nostalgia della Lazio. E dopo un anno, accettando uno stipendio più basso, convinse la famiglia Lenzini a riportarlo a Roma, a Tor di Quinto. “Mi mancava l’aria”. La squadra era ancora in Serie B: Castagner fu esonerato alla fine del girone d’andata, sostituito da Clagluna. Il regalo di Vincenzo fu quello di aiutare la Lazio a evitare la C. Dieci gol, compresa una tripletta contro il Varese di Fascetti: da 0-2 a 3-2, arbitro Agnolin, 6 giugno 1982. Settemila abbonati e 6.699 paganti, quella domenica, all’Olimpico. Moscatelli in porta, Spinozzi e Chiarenza terzini, Pochesci stopper, Pighin libero, Badiani mezzala, Sanguin in regia, De Nadai mediano, Vagheggi e Surro sulle fasce. D’Amico era il centravanti: maglia numero 9, due gol su rigore e uno su punizione, nonostante sette punti di sutura al polpaccio destro per un intervento di Cerantola. Promesse sempre mantenute, quelle di Vincenzo, protagonista anche nella stagione successiva, quando riportò la Lazio in serie A con Giordano e Manfredonia. Quattro gol: il più importante contro il Milan, 2-2 in rimonta all’Olimpico, segnò a un minuto dalla fi ne, dopo aver colpito la traversa. D’Amico era un artista: aveva una genialità che sapeva cambiare direzione alle partite. Un’eleganza rara, un senso di appartenenza che emergeva attraverso i comportamenti. Nel suo formidabile istinto trovava il divertimento: Maestrelli adorava il suo stile scapigliato, un po’ da Beatles, quei calzettoni alla Sivori, intorno alle caviglie. Quando usciva da Tor di Quinto, dopo gli allenamenti, scendeva dalla macchina. E si fermava a parlare con i tifosi: era la sua forma di rispetto. Una sacralità inviolabile. Non era il calcio dei divi, ma quello che si sposava con i desideri della gente: nessuna barriera, la bellezza della condivisione e degli abbracci. D’Amico era un leader nell’anima, perché nei momenti critici non si nascondeva mai: sapeva convivere con le responsabilità, senza smarrire l’umore giusto e l’ottimismo. Qualità che lo hanno contraddistinto anche durante la malattia, quando ha lasciato l’appartamento in affi tto a Funchal, nell’arcipelago di Madeira, in Portogallo, dove si era trasferito con la moglie Simona, per tornare a vivere a Latina. La Lazio era il primo pensiero, il suo buongiorno. D’Amico non è stato solo uno dei protagonisti dello scudetto di Maestrelli. Nel 1983-84 aveva regalato un’altra magia, salvando i biancocelesti in Serie A: l’allenatore era Paolo Carosi, Vincenzo si ritrovò a giocare da falso nove, dopo il grave infortunio di Giordano, operato per una frattura alla tibia e al perone, a causa di un’entrata a martello di Bogoni, stopper dell’Ascoli. Sette gol per chiudere il cerchio. Il presidente era Giorgio Chinaglia, rientrato dagli Stati Uniti, dove aveva segnato 231 reti con i Cosmos. Long John sperava di ricostruire una squadra ambiziosa e potente, confidando sull’appoggio finanziario di alcuni imprenditori americani in affari con la Warner Bros. Una bolla di sapone: da New York si tirarono subito indietro, perché il soccer - nella loro visione - non si sarebbe tradotto in un business. D’Amico era l’uomo dei sogni: li inseguiva, sapeva realizzarli. Ha considerato un altro bacio del destino anche la sua ultima domenica con la maglia biancoceleste: 15 giugno 1986, 4-2 al Brescia, un gol sotto la curva Nord. Casa sua e dei laziali.


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