Pagina 2 | Ascari, l’ultimo Campione Antonelli, ritorno al futuro

Nel 1953 Alberto al volante della Ferrari 500 conquistò il titolo mondiale piloti. Il tentativo di Alboreto nel 1985, poi Patrese sulla Williams dell’era Mansell e le speranze legate a Fisichella e Trulli. Ma ora c’è l’astro nascente...

I tifosi del calcio hanno già i dolori di stomaco da molto tempo, per le sofferenze ai mondiali della nostra nazionale, nel ciclismo del post-Nibali si gode assai meno di un tempo e nell’atletica le gioie arrivano a intermittenza. Il tennis con Sinner e l’Italvolley sono oasi mediamente felici, certo che sì. Ma, se ben guardiamo, il più terribile, devastante, immeritato, lancinante e deflagrante digiuno dello sport italiano, per quanto concerne una delle discipline maggiori a diffusione planetaria, è quello che riguarda il mondiale Piloti di F.1. Visto che sono passati settantadue anni dal titolo vinto da Alberto Ascari al volante della Ferrari 500, grazie al trionfo di tappa sul circuito svizzero del Bremgarten, nell’agosto 1953. In quel momento era passata più o meno una cinquantina d’anni dall’inizio delle competizioni automobilistiche e l’Italia era patria autorevole delle gare a motore e i piloti tricolori gli artisti indiscussi del volante. Con l’era Fiat garantita dagli epici Felice Nazzaro e Pietro Bordino, sulla cui scia s’era inserito Tazio Nuvolari, riconosciuto come il pilota più forte del mondo. Sfidato e corroborato da Achille Varzi e Luigi Fagioli, mentre l’Alfa Romeo era la Casa da corsa e di produzione più prestigiosa, vincente e sognata, con la Maserati che mica scherzava per niente, seguita da una selva di marchi italici. Insomma, eravamo la culla del ricamo sull’asfalto e non solo la patria dei santi del volante, dei poeti del banco di prova, dei navigati navigatori della realizzazione di bolidi vincenti, bellissimi e inimitabili. Spinte post risorgimentali, monarchia e fascismo, a turno, poco c’entravano. Semplicemente, eravamo i migliori, punto. In tutto, dall’ideare al costruire. Ma nella guida di più. Un po’ con spiegazioni di talento protoindustriale e preagonistico, un po’ per pura fortuna genetica, perché vedere nascere tanti e tali campioni tutti nella stressa penisola, mentre l’universo mondo s’affanna a produrne di più bravi in tutta la prima parte del secolo breve, è anche una mezza botta di fortuna.


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Sorte maledetta

Fatto sta che dalla metà degli Anni ’50 tutto cambia. La Ferrari scopre la squadra primavera, che sugli italiani Eugenio Castellotti e Luigi Musso fa perno, ma poi essi se ne vanno tragicamente tutti, uno a uno, compreso lo sfortunato neolancista Alberto Ascari - seguiti in circostanze differenti da Collins de Portago e Hatwthorn - e resterà solo il vuoto. E arrivano gli anni ’60 e ’70 che potrebbero essere favolosi ma non lo sono per niente, per l’Italia del volante, visto che tutti i talenti corsaioli nostrani faranno una fine poco bella se non, in certi casi, bruttissima. Lorenzo Bandini, Ludovico Scarfiotti e Ignazio Giunti restano gli emblemi apicali di questa somma sfortuna e di una sorte maledetta, c’è poco da fare, che allontanerà sempre più Enzo Ferrari dall’opportunità di favorire, caldeggiare e ingaggiare talenti tricolori. Perché se poi capita un incidente le rogne sono triple, l’eco quadrupla e l’ondata avversa di pubblica indignazione decupla. Da lì in poi, di mondiali sfiorati all’ultimo tuffo, nessuno. Punto. Anche se Arturo Merzario e Vittorio Brambilla hanno un cuore grande, quest’ultimo anche una vittoria epica a Zeltweg 1975, nell’uragano. Michele Alboreto fa cose meravigliose per metà 1985 ma poi la Ferrari lo lascia solo e deluso. Riccardo Patrese va forte con la Williams dell’era Mansell, ma di battere il Baffo non se ne parla, il grande Elio è vittima del fato, così ce la caviamo con virtuali e simbolici quanto consolatori vicetitoli di secondi arrivati nel mondiale, che male non fa, però rivincere l’iride sarebbe stata tutta un’altra cosa. Ma grazie lo stesso ai race winner Giancarlo Fisichella e Jarno Trulli.


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Sporca verità

Certo, se adesso chiamo Mario Andretti, ecco che “Piedone” mi spiega quanto siano immotivate tali paturnie, in quanto lui italiano ci si sente tuttora, di natali, cultura e sensibilità, e il titolo, meritatissimo, lo ha vinto nel non preistorico 1978. Però, dai, lo sappiamo tutti che lo ha fatto con passaporto e cittadinanza statunitense, il che un tantino le cose le sposta, eccome. La sporca verità è che gli italiani da corsa andrebbero aiutati a casa loro. E quindi? E quindi niente, dopo settantadue anni di astinenza, siamo tutti nelle mani del bravo e freschissimo talento Kimi Antonelli, pupillo Mercedes. E, dai che ti ridai, la verità erutta tre postulati tosti: 1) Dal 1953 il nostro automobilismo non produce un Clark, un Senna o uno Schumi e questo lo dobbiamo accettare con imparziale realismo. 2) La pressione dell’opinione pubblica è sempre a favore della Ferrari e mai a vantaggio dei piloti italiani. Quando, nel Gp di San Marino 1983, Riccardo Patrese su Brabham uscì di pista scivolando sul breccino alle Acque Minerali aprendo la strada alla passerella trionfale del francese Tambay su Ferrari, quasi tutti i centomila italici ruggirono felici e tantissimi italioti in tribuna mostrando a Riccardo il gesto dell’ombrello. 3) Qualsiasi pilota italiano post-Ascari che ha provato o proverà a rivincere il mondiale lo ha fatto e lo farà non grazie alla Ferrari, ma malgrado la Ferrari. È stato così per Alboreto, dalle ali tarpate per virus tecnici aziendali, è andata in questo modo per Patrese, prima corteggiato e poi non preso dalla Rossa, e sarà così per chiunque altro che riuscirà a farsi strada, di certo non potendo contare, almeno a corto raggio, sull’aiuto concreto del Cavallino. Ed è tabù parlarne, perché farlo vuol dire toccare concetti scomodi. Pertanto, piano quando si parla di Nazionale Rossa. Quella di Coletta nel Wec in gran parte lo è, ma in F.1 le cose - dal mesozoico a oggi - funzionano diversamente.


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Sveglia

Tutto questo discorso serve per arrivare alle morali costruttive, senza voler assurgere a costrittive. Cioè zero polemiche. Nessuna accusa, niente battaglie e tutto okay. Però, sveglia, cari signori appassionati italiani. Sveglia, cosiddetta opinione pubblica. Sveglia, colline della passione e sveglia, milioni di entusiasti di motorsport nei social e non. Cominciamo a vivere, soffrire, pensare, veicolare, metabolizzare e propagandare questo digiuno per esorcizzarlo, gettando anche le basi ideologiche e culturali per sconfiggerlo. Perché se continuiamo a far finta di niente, mai succederà nulla di bello per creare le condizioni d’interrompere ’sta dieta raccapricciante e quasi secolare. Per esempio, cominciamo a tifare come dannati Antonelli, in proiezione il F.2 leader Fornaroli e non solo loro, ma tutti quei ragazzi tricolori che dimostrano di meritare fiducia, affetto, stima e chance, fin dalle formule propedeutiche. Sissignori, bisogna ripartire dal primo piolo della scala, con umiltà, determinazione e consapevolezza. Noi italiani, pensando a questi 72 anni dall’ultimo titolo di Alberto Ascari, dobbiamo provare un brivido di commossa empatia verso il leggendario “Ciccio”, ma anche un senso d’indignazione per tante cose successe e non successe, da lì in poi. Concludendo che i primi a dover cambiare dobbiamo essere noi. Auspicabilmente, l’Italia del motore deve tornare a essere grande tutta e non solo quella Rossa, anche se indossa caschi e tute senza il Cavallino stampigliato. Il primo step è finalmente parlarne, di questa cosa, da appassionati automobilisti anonimi, riuniti in cerchio. Ciao, mi chiamo Italia e non tocco un mondiale Piloti da 72 anni.

 


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Sorte maledetta

Fatto sta che dalla metà degli Anni ’50 tutto cambia. La Ferrari scopre la squadra primavera, che sugli italiani Eugenio Castellotti e Luigi Musso fa perno, ma poi essi se ne vanno tragicamente tutti, uno a uno, compreso lo sfortunato neolancista Alberto Ascari - seguiti in circostanze differenti da Collins de Portago e Hatwthorn - e resterà solo il vuoto. E arrivano gli anni ’60 e ’70 che potrebbero essere favolosi ma non lo sono per niente, per l’Italia del volante, visto che tutti i talenti corsaioli nostrani faranno una fine poco bella se non, in certi casi, bruttissima. Lorenzo Bandini, Ludovico Scarfiotti e Ignazio Giunti restano gli emblemi apicali di questa somma sfortuna e di una sorte maledetta, c’è poco da fare, che allontanerà sempre più Enzo Ferrari dall’opportunità di favorire, caldeggiare e ingaggiare talenti tricolori. Perché se poi capita un incidente le rogne sono triple, l’eco quadrupla e l’ondata avversa di pubblica indignazione decupla. Da lì in poi, di mondiali sfiorati all’ultimo tuffo, nessuno. Punto. Anche se Arturo Merzario e Vittorio Brambilla hanno un cuore grande, quest’ultimo anche una vittoria epica a Zeltweg 1975, nell’uragano. Michele Alboreto fa cose meravigliose per metà 1985 ma poi la Ferrari lo lascia solo e deluso. Riccardo Patrese va forte con la Williams dell’era Mansell, ma di battere il Baffo non se ne parla, il grande Elio è vittima del fato, così ce la caviamo con virtuali e simbolici quanto consolatori vicetitoli di secondi arrivati nel mondiale, che male non fa, però rivincere l’iride sarebbe stata tutta un’altra cosa. Ma grazie lo stesso ai race winner Giancarlo Fisichella e Jarno Trulli.


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