Zenga esclusivo: "Difendo Donnarumma, in porta siamo al top"

In Nazionale ha vissuto e superato momenti difficili: "Gigio ha sbagliato e lo sa. Ma è freddo e se a San Siro lo fischieranno non cederà alle emozioni"
Zenga esclusivo: "Difendo Donnarumma, in porta siamo al top"
Alessandro Barbano
10 min

Papera? Errore? Ritardo intuitivo? Quel mezzo passo a destra un attimo prima che partisse la palla è stato fatale? Donnarumma doveva capirlo che, con una rincorsa di tre metri, Bardhi non progettava un tiro liftato sulla barriera, ma piuttosto un tiro a giro forte sul secondo palo? E quindi, lui, il mezzo passo col piede destro avrebbe dovuto farlo in avanti, per poi darsi la spinta con il sinistro? Magari allungandosi con la mano di richiamo, cioè la destra? «Facile a dirsi a posteriori», dice Walter Zenga, che lo difende, non senza ammettere che «Gigio ha sbagliato. E il primo a saperlo è proprio lui. Perché se prendi gol sul tuo palo, su punizione, hai sempre qualcosa da rimproverarti. Di errore si tratta, condizionato però dalla balistica di un tiro molto preciso e molto veloce».

Ma con quella rincorsa, il mezzo passo a destra è stata un’ingenuità? 
«A bocce ferme possiamo dire di sì. Ma in campo le cose vanno diversamente da come si vedono in televisione. La forza di un grande portiere è di mettere un punto e ripartire».

E la mano di richiamo? 
«Donnarumma è alto un metro e novantasei. Vicario uno e novantatré. Sommer solo uno e ottantatré. La loro apertura alare è del tutto differente. Non c’è, su una palla simile, una tecnica valida allo stesso modo per tutti e tre. I più bassi usano la mano di riporto per allungarsi di più, ma non è una religione. Sceglie l’istinto di chi sta in mezzo ai pali, con tutta la sua responsabilità. Per questo dico: non sparate su Gigio. Io lo assolvo».

Non spariamo, ma non chiudiamo gli occhi. Perché sul gol della Macedonia che ci ha negato i Mondiali del Qatar, Donnarumma ha denunciato lo stesso letargo. E l’altra sera, poco prima del gol, è parso in ritardo sul tiro a giro di Elmas che ha fatto la barba al palo. Non sarà che giocare in un campionato poco allenante come quello francese gli faccia male? 
«Cazzate, e non si offenda se uso questa parola. Elmas era a diciassette metri, ha visto l’angolo e ha calciato fulmineo con tutta la forza e con tutto l’effetto che un bravo calciatore può imprimere al pallone. Se finiva in porta, era imparabile. Non si può trarre un teorema da singoli episodi. Se Benzema gli ruba il pallone fallosamente e fa gol, non si può dire che Gigio non sappia giocare con i piedi. Questo è un modo di raccontare il calcio che sconfina nel pregiudizio».

Sarà che gli italiani della generazione di mezzo sono passati da Buffon a Donnarumma. E converrà che non sono la stessa cosa. 
«Ma quanti errori ha fatto Buffon nella sua carriera? Se facessimo una ricerca mirata, ne scopriremmo tanti. Perché più giochi, più errori fai. Questa è l’unica banale verità. Prenda Maignan, che è uno dei più forti che abbiamo in Serie A. L’anno scorso in un paio di occasioni ha commesso errori banali. Lo stesso si può dire di Onana».

Ma non fu lei, negli anni Ottanta, uno dei primi a chiedere che il preparatore dei portieri fosse un ex portiere? 
«Sì, al mio arrivo all’Inter. Venivo dalla Samb, dove c’era un preparatore, Piero Persico, che mi allenava con le palline da tennis in spiaggia, e lavorava sui gesti atletici più difficili. Per esempio, la parata con salto all’indietro sui cross che ti scavalcano. A Milano il vice di Marchesi, Alberto Delfrati, metteva dieci palloni sul limite dell’area e ti sparava addosso pallonate pazzesche. Pretesi che prendessero Castellini. E fu un’altra musica».

Ma in un club molto ricco, come il Psg, dove si comprano prodotti finiti, ci si allena meno con le palline da tennis? E magari si finisce per subire un’involuzione?  
«Non è così, anzi. Le palline da tennis sono state sostituite da allenamenti più mirati e più scientifici rispetto ai tempi miei e di Tacconi, soprattutto nei grandi club. Se un calciatore come Buffon vince il titolo di miglior portiere del mondo cinque volte tra il 2003 e il 2017, vuol dire che la cura della persona, l’alimentazione, le metodologie e i materiali d’allenamento sono sempre migliorati, perché altrimenti non si resta a certi livelli per quattordici anni. Noi andavamo in campo ancora con i pantaloni della tuta per non sbucciare le ginocchia, oggi i portieri giocano in campi da biliardo. Nei grandi club si evolve, non si involve».  

Il campo di Skopje, però, era un biliardo strappato… 
«Sì, ma non è una scusa. Perché il grande calciatore è quello che meglio si adegua alle situazioni impreviste. Ai miei tempi ogni squadra giocava con il suo pallone. Il Milan aveva il Select, noi l’Uhlsport, il Pisa il Mitre. E ogni sfera aveva traiettorie e rimbalzi differenti. Bisognava adattarsi. Adesso ai portieri si chiedono nuovi compiti, come quello di costruire dal basso. Che non vuol dire solo giocare bene con i piedi ma, come dice Spalletti, imparare a leggere le situazioni tattiche. Eppure, allo stesso tempo, la differenza la fanno ancora le mani».

Che cosa intende? 
«Voglio dire che non esiste un ruolo così carico di responsabilità e così esposto alle critiche quanto quello del portiere. Il pari di Skopje lo dimostra. Stiamo discutendo dell’errore di Donnarumma, ma del fallo gratuito di Zaniolo, che causa la punizione, vogliamo parlare? Poi, certo, è più facile dire che il portiere poteva prenderla».

Lei ha conosciuto momenti simili. La sua uscita a vuoto su Caniggia in Italia 90 offrì all’Argentina l’occasione di pareggiare, e poi di qualificarsi ai rigori. Come si supera uno scivolone così? 
«L’unica cosa da fare è togliersi di dosso quello che è successo, scrollarselo con le parole e i pensieri, e tornare a giocare. Questo è un professionista. Dopo quella delusione, ho vinto di nuovo il titolo di portiere migliore del mondo, la Coppa Uefa, e ho vestito ancora la maglia azzurra. Così ha fatto Bobo Vieri dopo aver fallito il gol a porta vuota in Corea. Così farà Gigio martedì a Milano contro l’Ucraina».

A San Siro è stato già fischiato. Non sarà facile tornarci in un momento simile. 
«Lo conosco, ha una freddezza che sa gestire l’emozione. Comunque è meglio essere insultati che ignorati. Donnarumma a ventiquattro anni ha giocato già trecento partite. Ne giocherà ancora almeno il doppio. Dell’errore di Skopje non parleremo più».  

Chi sono, a suo giudizio, i portieri più forti in Italia? 
«Siamo tornati competitivi in questo ruolo, ed è merito della nostra grande scuola. Dietro ai quattro nazionali, Donnarumma, Vicario, Meret e Provedel, ci sono ragazzi come Di Gregorio, Caprile e Falcone. Tutti pronti per grandi club. Ma dico di più. Se prendessimo due big del campionato come Juve e Atalanta, e mettessimo Perin al posto di Szczesny e Carnesecchi al posto di Musso, probabilmente non prenderebbero un gol in più». 

Però in Nazionale non ci sono più i Totti, i Del Piero, i Baggio. Perché non nascono oggi in Italia giocatori simili? 
«Ci sono fasi e fasi. Anche ai miei tempi abbiamo avuto una Nazionale che giocava con cinque giocatori della Sampdoria».

Lei non crede che, se in Serie A giocano solo settantacinque italiani su trecento, sia più difficile scovare i top player?  
«Dico sì, che è più difficile. A patto di non cercare alibi e arrivare a sostenere che pareggiamo con la Macedonia perché mancano gli italiani».

E allora perché la Nazionale ha perso due qualificazioni mondiali ed è appesa adesso a un filo per giocarsi gli Europei? 
«Perché il calcio si è livellato molto. E certo, se entra in campo Gnonto, che nel Leeds non trova posto, qualche problemino ce l’abbiamo».

Vuol dire che la seconda generazione dei manciniani è da rivedere? 
«Voglio dire che Spalletti non può cambiare l’Italia in cinque giorni. Per ora ha puntato sui più esperti. Poi farà il suo gruppo. Non dimentichiamo che in Macedonia mancavano Chiesa e Pellegrini. Non sono comprimari».

Ma se la Spagna lancia un sedicenne e noi abbiamo i settori giovanili strapieni di stranieri, qualche problema ci sarà, o no? 
«Certo, quei sedicenni prima di finire in Nazionale hanno trovato posto in club come Barcellona e Real. Noi abbiamo parlato per mesi di Pafundi, ma Pafundi non gioca neanche nell’Udinese». 


© RIPRODUZIONE RISERVATA