Parliamo dei giocatori prima di valutare gli allenatori

Leggi il commento di Roberto Beccantini sul rapporto tra tecnici e calciatori
Parliamo dei giocatori prima di valutare gli allenatori
Roberto Beccantini
6 min
I giocatori, i giocatori. Parliamone, quando pesiamo gli allenatori. Ricordo gli epinici dedicati a Simone Inzaghi per aver inflitto l’unica sconfitta al Napoli e asfaltato il Milan a Riad. Improvvisamente, «i ragazzi della via Empoli» lo hanno tirato giù dal letto e spinto al muro del pianto (e del disincanto). Ah, quell’Edin Dzeko dimenticato. Ah, quel Raoul Bellanova gettato allo sbaraglio. Gli hanno sparato tutti. Tutti, tranne uno: Roberto Mancini. I giovani, i giovani. Una grande squadra come l’Inter non dovrebbe aver bisogno di «suggeritori» speciali. Se mai è la provincia, per differenza di censo e fatturato, ad averne diritto. Anche se poi, all’atto pratico, Paolo Zanetti, che portò il Venezia in A ma non riuscì a salvarlo dalla retrocessione, ha palesato una maturità degna dei tutori più illuminati.

Crisi Pioli

E con Inzaghino, Stefano Pioli. Da uno scudetto che ci parve un mezzo miracolo a una crisi che - tra lo 0-3 di Supercoppa, lo 0-4 con la Lazio e il 2-5 del Sassuolo - ha seminato strani dubbi, strani perché fino a Natale Stefano veniva considerato un genio, «lui quoque». Dove sono finiti Theo Hernandez e Rafael Leao? Per tacere di Zlatan Ibrahimovic, la cui età - a ottobre saranno 42 - nasconde l’impatto che ebbe e il contributo che offrì sino alla raffica di infortuni. Paolo Maldini e Ricky Massara hanno sbagliato mercato. Capita. Charles De Ketelaere è il putto dipinto da Lele Adani o lo scarabocchio di troppi compiti in classe? I giocatori, i giocatori. Ormai si possono reclutare o cedere quasi ogni mese, anche se, a rigor di logica, precettori così alati e così creativi dovrebbero accontentarsi dei vivai. Invece no.

Rinascita Sassuolo

Prendete il Sassuolo di Alessio Dionisi. L’abbuffata di San Siro ha troncato un digiuno che si trascinava dal 24 ottobre. Dei «titolarissimi» è rimasto Domenico Berardi. Altra musica, in passato: Lorenzo Pellegrini, Manuel Locatelli, Stefano Sensi, Matteo Politano, Jérémie Boga, Gianluca Scamacca, Giacomo Raspadori. Non discuto che Eusebio Di Francesco e Roberto De Zerbi fossero di una categoria superiore, ma resta il dubbio che, a forza di cambiare e scambiare, la «livella» dell’organico abbia eroso l’autorevolezza dei paragoni.

Mancini e i suoi fratelli

Tornando al Mancio ct. L’11 luglio 2021, campione d’Europa; il 24 marzo 2022, zimbello del Mondo, eliminato dalla Macedonia del Nord a Palermo. Eppure i convocati erano più o meno gli stessi (o proprio per questo). Si mescolano, nel sentimento popolare, lo smacco e lo stacco: da raffinato stratega a ordinario gestore. Non mancano gli esempi virtuosi: Luciano Spalletti a Napoli, Gian Piero Gasperini a Bergamo, Raffaele Palladino a Monza. Fa gara a sé, in compenso, Massimiliano Allegri: alla «mano» del capo ha sempre preferito i «piedi» dei dipendenti. Il dilemma è filosofico. Per battere il «liberismo» dei singoli ci si rifugia nello «statalismo» dei tecnici. In giro, però, si vendono le maglie di Leo Messi e Cristiano Ronaldo, non ancora le tute di Pep Guardiola, primo per distacco nel sinedrio dei maestri. E se avessi buttato lì, volgarmente, un’idea di marketing?

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