Bologna, pensati libero

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Ivan Zazzaroni
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Quarto, e per un giorno da solo. È tutto vero! Così com’è vero che da un anno all’altro ci sono 12 punti, 3 vittorie e 8 gol in più, e 6 sconfitte e 11 reti subite in meno. La cifra stilistica, il senso di squadra, Zirkzee e Ferguson, Fabbian e Orsolini, Freuler e Beukema li celebriamo da tempo, e allora mi spingo molto più in là. Bologna, adesso pensati libero. Libero di giocare con le ambizioni più naturali ma senza traguardi imposti, se non quello del continuo coinvolgimento di un pubblico che da oltre venticinque anni attendeva di rivivere momenti come questo. Un pubblico, una tifoseria che ha saputo sopportare proprietà improbabili, squadre abituate alla rinuncia, sacrifici d’ogni genere. Una tifoseria che è tornata a cantare, non a contare: una di quelle tifoserie che si lamentano giustamente della mancanza di attenzioni mediatiche.

Bologna meritava e merita giorni come questi. Bologna non è città, né paese, è tanto di più. «Quella che lei chiama Bologna - così la descrisse Carlo Lucarelli - è un cosa grande, che va da Parma fino a Cattolica... dove davvero la gente vive a Modena, lavora a Bologna e la sera va a ballare a Rimini... è una strana metropoli che s’allarga a macchia d’olio tra il mare e gli Appennini».

La Bologna migliore, la più vera, si trova nel docufilm che mercoledì 6 marzo Andrea Mingardi presenterà al cinema Lumière: “Bologna I love you”, e non potrebbe essere altrimenti. Bologna è il Bologna, il prodotto di due scelte felici, l’una derivata dall’altra. La principale, quella di affidare la parte tecnica a Giovanni Sartori, artigiano della qualità più o meno come poltronesofà.

Non ho mai dimenticato cosa mi disse nelle sue stagioni al Chievo quando tentai di capire quale fosse il segreto di tante scelte azzeccate. «Di un giocatore voglio sapere tutto» spiegò «lo voglio vedere tante volte, conoscere la sua storia, gli voglio parlare prima di prenderlo perché io guardo alla testa, non solo ai piedi e al motore».

Sartori non è scout, né boy, ma si muove con la freschezza di un ragazzo, quando non manda in giro i suoi trenta occhi. Seleziona e, se la società gli dà i quattrini, porta a casa Giocatore 1, altrimenti passa ai piani B, C, D, E, F. Prima del punto G si ferma e cambia percorso.

La seconda scelta decisiva gli appartiene ed è Motta, che aveva seguito e fatto seguire tante volte a La Spezia. Quando dodici anni fa Prandelli lo portò agli Europei, in pratica imponendolo, fui critico: non mi convinceva, lo consideravo troppo lento e lineare. Per Cesare ct era invece l’uomo-chiave per visione e tempi di gioco. Caratteristiche che Thiago ha trasferito ai suoi ora che allena. Da settimane si parla del suo addio a giugno: lo cercano in tanti, Bologna per lui è terapia e tappa di passaggio (si sapeva dal primo giorno), ma giovedì ha voluto ugualmente sottolineare l’aspetto emozionale delle sue decisioni, diffondendo illusioni.

Motta crea volutamente le distanze, sa muoversi e comunica solo quando gli interessa farlo. Motta non è solo ciò che mostra, è anche ciò che tace e nasconde, lasciando agli altri il compito e il piacere di capire cosa stia accadenndo. Un giorno gli feci i complimenti chiedendogli un’intervista, la sua risposta fu questa: «Grazie, Ivan. Esalta il lavoro di questi ragazzi, per favore. Lavorano tanto». Il no alla Motta.


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