Ci voleva un pazzo o un visionario per caricarsi addosso il peso d’una responsabilità illimitata: appena due settimane fa (oggi), dove adesso sembra stia germogliando un sogno, c’era terra bruciata, il senso d’una precarietà diffusa e una assuefazione alla malinconia che lasciava esclusivamente contare i giorni dal 26 maggio. Avevano bruciato l’effetto-scudetto, cioè la gioia di un’impresa storica allevata per trentatré anni e concepita attraverso un calcio regale da Spalletti, in assai meno di sei mesi, perché tutto era cominciato già a luglio scorso; ed è ormai pure inutile ricordate le scelte, le dinamiche per arrivare ad un allenatore e poi ad un altro - l’esatto contrario del predecessore - e a seguire: la «politica», il mercato, i contratti, cose dell’altro calcio che il 2-1 sulla Juventus ha “resettato”. Quando Francesco Calzona, in gioventù anche rappresentate di caffè, si è presentato a Castel Volturno, era già ormai la vigilia della gara con il Barcellona, da preparare con un allenamento e una rifinitura e tanto buon senso: «Io ho una sola certezza: il vostro talento, quello che vi ha fatto realizzare un capolavoro l’anno scorso, e non può essere svanito nel nulla». Invece, intorno a sé, magari l’ha pensato, aveva proprio niente: le facce stravolte di chi non ha percezione di dove fosse e per fare cose, il caos inevitabile scatenato dall’uso di tanti codici - il tridente rovesciato in difesa a tre - e un fuggi fuggi generale annunciato per la prossima estate. Calzona ha azzerato il passato, quello recente perché quello più remoto gli era ben noto, mica come Garcia, ha sistemato Lobotka - il leader della sua Nazionale - in mezzo ai propri pensieri, gli ha ricordato che un piccolo Iniesta sa come si esce dagli equivoci, ha riabilitato mentalmente Anguissa, concedendogli il campo in lungo e pure in largo, ha rielaborato le distanze tra i reparti, perché viene più facile attaccare e difendere, e aspettando Osimhen ha consegnato a Kvara la sua fascia sinistra e una libertà vigilata da chi gli sta alle spalle, Olivera o Mario Rui e Zielinski o Traore.
Napoli, le mosse di Calzona
Non è ben chiaro a nessuno dove possa arrivare il Napoli, non è in grado di dirlo né un mago e né un veggente, ma Calzona, come un rabdomante, è andato a capire dove fosse finita quella vena poetica irrinunciabile, la natura stessa della vita della sua squadra: «Qui nel codice genetico c’è la Bellezza». Un pareggio sofferto con il Barcellona, uno «maledetto» a Cagliari, una vittoria travolgente a Reggio Emilia con il Sassuolo e una «benedetta» con la Juventus: squadra che segna sempre, che un po’ ancora concede (e tanto alla Vecchia Signora), che però s’è preso il pallone e lo ha tenuto per sé: il 71% di possesso con Madame e a Cagliari, il 72% con il Sassuolo. Come avrebbero detto i Maestri di un tempo: «se la palla ce l’ho io, sono sicuro che non possono tirarmi in porta». Però ci hanno pensato Osimhen (cinque gol in quattro partite e un rigore sbagliato), Kvara che ne ha fatti tre, Rrahmani e Raspadori, che si è sbloccato dopo quattro mesi senza l’aiuto di intelligenza artificiale, ma dimostrando che quella umana, sui calci di rigore, è più che sufficiente.
Napoli, la scalata di Calzona
C’è ancora un Everest da scalare e Calzona si è perfettamente calato nel ruolo, profilo basso e vita da clausura in quella Castel Volturno che è un laboratorio per prepararsi al Torino, poi al Barcellona, ed isolarsi acusticamente dalla Napoli che l’applaude rispettosamente per averle restituito il sorriso sorseggiando assieme un caffè. Che o rende nervoso oppure ambizioso.