Lui era Vincenzino, un figlio della Lazio

D’Amico un simbolo del club biancoceleste, di cui ha indossato la maglia sempre con onore e valore. Nato a Latina e cresciuto con l’aquila nel cuore, è stato uno dei più grandi talenti del calcio italiano: ed era uno... del ’74. Protagonista del primo scudetto, se n’è andato nel luglio 2023
Marco Ercole
6 min

Ci sono giocatori che indossano una maglia. E poi ci sono giocatori che sono quella maglia. Vincenzo D’Amico appartiene a questa seconda, ristrettissima cerchia. Nel firmamento delle leggende laziali, poche stelle brillano con la stessa intensità. Non un semplice calciatore, ma un’incarnazione dello spirito biancoceleste, un legame viscerale tra la squadra, la città e una tifoseria che lo ha amato come un figlio. La sua storia non è fatta solo di gol, di giocate illuminanti, di vittorie e di sconfitte, ma di un amore incondizionato, di una passione contagiosa e di un’appartenenza che lo hanno reso una bandiera della Lazio, un simbolo intramontabile.

 

Un aquilotto di nome Vincenzino

Nato a Latina, ma cresciuto a Roma, D’Amico ha respirato fin da bambino l’aria del derby, la rivalità, la passione che avvolge il calcio nella Capitale. E il suo cuore, neanche a dirlo, batteva solo per la Lazio. Entrato nelle giovanili biancocelesti, ha percorso tutta la trafila, bruciando le tappe e mostrando fin da subito un talento cristallino. Il suo esordio in prima squadra, nel 1972, è stato l’inizio di una lunga e appassionata storia d’amore. Più di 300 presenze con la stessa maglia, intervallate solo da una breve parentesi al Torino (intrapresa solo perché obbligato), oltre 50 gol che hanno infiammato il cuore dei tifosi. Ma i numeri, pur importanti, non bastano a descrivere a pieno il suo impatto. D’Amico era molto più di un semplice calciatore: era un artista del pallone, un fantasista capace di inventare giocate geniali, di illuminare la partita con un colpo di tacco, un dribbling ubriacante, un assist millimetrico. Il suo soprannome, “Vincenzino”, non era affatto diminutivo, ma un vezzeggiativo carico d’affetto, che sottolineava il legame speciale che lo univa alla gente laziale. «Io non volevo fare il calciatore, io volevo fare il calciatore della Lazio», amava ripetere D’Amico. Una frase che racchiude l’essenza del suo essere laziale, un sentimento che andava ben oltre il semplice professionismo. Per lui, vestire quella maglia era un onore, una missione. Ed è proprio questo attaccamento viscerale, questa passione autentica, che lo ha reso una bandiera, un punto di riferimento per intere generazioni di tifosi. Il suo talento si esprimeva in un calcio elegante e imprevedibile. Poteva giocare da mezzala, da trequartista, da ala, adattandosi alle esigenze della squadra e mettendo sempre il suo talento al servizio del collettivo. Ma il suo ruolo preferito era quello di “regista avanzato”, un ruolo che gli permetteva di esprimere al meglio la sua creatività e la sua visione di gioco. Era un maestro nel leggere le situazioni, nel trovare il passaggio giusto al momento giusto, nel creare occasioni da gol per i compagni.

Un legame viscerale con la Lazio

Il 12 maggio 1974 è una data scolpita nella storia della Lazio e nel cuore di ogni laziale. È il giorno dello storico scudetto, il primo della storia del club. D’Amico fu uno dei protagonisti indiscussi di quella cavalcata trionfale, guidata da un allenatore carismatico come Tommaso Maestrelli e trascinata dai gol di Giorgio Chinaglia. Insieme a Wilson, Re Cecconi, Oddi e tanti altri, D’Amico formò un gruppo straordinario, un mix di talento, carattere e spirito di squadra che ha portato la Lazio sul tetto d’Italia, nonostante appena due anni prima fosse arrivata la promozione in Serie A. Quel titolo ha cementato per sempre il suo legame con la Lazio, trasformandolo in un’icona, in un simbolo di quella squadra leggendaria. Ma non è stato certo l’unico motivo. Già, perché anche nei momenti più difficili, quando la Lazio ha affrontato periodi turbolenti, D’Amico non ha mai abbandonato la nave. È rimasto fedele ai suoi colori, dimostrando un attaccamento che andava al di là dei risultati sportivi. Questa sua coerenza lo ha reso ancora più amato dai tifosi, che lo consideravano in modo naturale e legittimo uno di loro, un rappresentante autentico della lazialità. Anche dopo aver appeso le scarpe al chiodo, ha continuato a vivere nel mondo del calcio come commentatore sportivo, portando la sua competenza e la sua passione nelle case di milioni di italiani. Ma il suo legame con la Lazio non si è mai affievolito. È rimasto un punto di riferimento, un consigliere, un ambasciatore del mondo biancoceleste. La sua scomparsa, avvenuta nel luglio del 2023, ha lasciato un vuoto incolmabile. Ma il suo ricordo, le sue giocate, il suo amore per il club biancoceleste, rimarranno per sempre. Resterà il calciatore, l’icona, la leggenda, l’aquila fiera. Un giocatore che non ha solo indossato una maglia. È un giocatore che è stato, e resterà per sempre, quella maglia.

 

 

 


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