Facchetti, un’ala in difesa
Sua mamma Elvira aveva partorito in camera da letto con l’aiuto di un’ostetrica: Giacinto pesava quattro chili e duecento grammi. Era un’altra Italia, fragile e sfregiata dalle bombe. Estate 1942, 18 luglio, la radio trasmetteva i bollettini di guerra. Il padre Felice faceva il ferroviere. Tre sorelle: Franca, Gianna e Giuseppina. Un fratello: Luigi. Vivevano a Treviglio, nella zona delle case popolari. Facchetti era cresciuto con le zuppe, il riso e il latte delle sue campagne, in provincia di Bergamo. Rispondeva così, con una battuta e un sorriso, a chi gli rivolgeva domande sul fisico da guardia reale. In un ambiente del calcio inquinato dalle polemiche, il suo equilibrio e i suoi silenzi permettevano a tutti di capire quale fosse la parte giusta. Era l’elogio della gentilezza.
Il cartellino e la biro blu
A sei anni si era innamorato del pallone. Giocava per il Gruppo Sportivo Zanconti, vicino all’oratorio. Tessera rosa della Figc, numero 7.526, con una penna era stato corretto il mese della sua nascita, che la dattilografa aveva sbagliato: il 2 era diventato un 7 con una biro blu. Veniva utilizzato in attacco, nel ruolo di ala. Nel 1958, a febbraio, era stato chiamato dal Milan per un provino: quel giorno era presente anche Ferenc Puskas, fuggito dall’Ungheria dopo l’invasione dei carri armati sovietici a Budapest. Bravo nel calcio e nell’atletica. Nei campionati provinciali studenteschi aveva battuto Ajmone Testa, correndo gli ottanta metri in nove secondi.
L'intuizione di Meazza
L’Inter lo aveva scoperto il 4 aprile del 1958, durante un torneo giovanile a Ginevra. Merito di Peppino Meazza. Quattro giorni, tra complimenti e abbracci. Un anno dopo, in via Larga, a Milano, la firma per il club nerazzurro e i primi allenamenti con Meazza, pronto a trasformarlo in un terzino sinistro. Il campo si trovava in via Freikofel, nel quartiere Corvetto. Nel 1960 Helenio Herrera si presentava spesso in tribuna per seguirlo. «Facchetti o Cipelletti?», il tecnico inciampava ogni tanto a pronunciare il suo cognome, durante le partitelle all’Arena. Gli schemi, le corse con un elastico ai fianchi e le gomme delle auto da trascinare, la lavagna, il gesso del Mago.
La Coppa delle Fiere
Herrera lo aveva fatto esordire il 3 maggio del 1961 nella semifinale della Coppa delle Fiere: il Birmingham vinse 2-1, gol di Bloomfield, Harris e Masiero. Facchetti giocava con la maglia numero 3. Ventisette giorni dopo, il 30, avrebbe festeggiato il primo gol in campionato: 3-0 al Napoli, assist di Picchi, a segno anche Corso e Bolchi. La profezia di Herrera: «Diventerà il difensore di fascia più forte del mondo». I compagni, con affetto, chiamavano Giacinto il “Cipe”, ricordando che quel cognome all’inizio era stato uno scioglilingua per il tecnico di Buenos Aires. Forza atletica, un metro e 91, tocco raffinato, blitz in area di rigore, un tiro da fuori che era un colpo di fionda. A sinistra demoliva gli avversari. Il 27 marzo del 1963, a Istanbul, il ct azzurro Edmondo Fabbri aveva deciso di lanciarlo in Nazionale: 1-0 per l’Italia, gol di Sormani a quattro minuti dalla fine. Facchetti era partito titolare. Vieri in porta. Maldini, Tumburus e Salvadore in difesa. Trapattoni, Orlando, Puia e Menichelli a centrocampo. Corso e Sormani in attacco. Un uomo, una bandiera, otto nomination tra i candidati al Pallone d’Oro. Una vita per l’Inter: 634 partite e 75 gol tra Serie A e coppe. Nove trofei. Quattro scudetti, il primo nel 1963 con Herrera e l’ultimo nel 1971 con Giovanni Invernizzi, subentrato in panchina - dopo cinque giornate - a Heriberto Herrera. Una Coppa Italia. Due Coppe dei Campioni. La prima nel 1964: 3-1 a Vienna contro il Real Madrid di Gento, Puskas e Di Stefano. Doppietta di Mazzola e gol di Milani. L’altra perla nel 1965: battuto 1-0 il Benfica di Eusebio a San Siro, grazie alla rete di Jair. Una collezione che comprende anche due Coppe Intercontinentali, entrambe in finale con l’Independiente. LA FAMIGLIA. Abitava a Cassano d’Adda. Era sposato con Giovanna. Quattro figli: Barbara, Vera, Gianfelice e Luca. Si rilassava giocando a tennis e a carte. Vacanze tra le montagne della Val Seriana, a Selvino, 960 metri. Capitano nell’Inter e in Nazionale. Novantaquattro partite e tre gol in azzurro. Il trionfo all’Europeo del 1968. La mitica sfida vinta per 4-3 nel Mondiale del 1970 in Messico contro la Germania di Gerd Müller: un’avventura chiusa poi con la sconfitta in finale, davanti al Brasile di Pelé, Jairzinho, Tostão, Gerson, Carlos Alberto e Rivelino. Gli insegnamenti di Angelo e Massimo Moratti, la capacità di distinguersi anche da dirigente. Un consigliere speciale: razionalità e visione del futuro. Una crescita graduale. Il 29 maggio del 1995, con una nota di poche righe, l’ingresso nel consiglio di amministrazione dell’Inter. Il 5 giugno, alla Terrazza Martini, presenta Javier Zanetti, arrivato dal Banfield. Il 2 luglio del 1997 apre un’altra agenda: ambasciatore dell’Inter nel mondo. Viaggi e relazioni, fino al 16 novembre del 2001, quando Massimo Moratti decide di affidargli la poltrona di vicepresidente. Tante date con il cerchio rosso. Il 30 gennaio del 2004 la sua serietà viene premiata ancora: diciannovesimo presidente nella storia dell’Inter. Stima e affetto. Prima delle lacrime: 4 settembre 2006, Facchetti muore in una stanza dell’Istituto dei Tumori di Milano, in via Giacomo Venezian. Moratti gli dedica una lettera aperta: “Dolce, intelligente, coraggioso, riservato, lontano da ogni reazione. Grazie di aver onorato l’Inter e con lei tutti noi”.
