Quando ho conosciuto Giorgio Napolitano - breve, ma intenso incontro al Quirinale - ero immerso nella napoletanità. Scrivevo per il Roma, m’inventavo i Tre Tenori (Lavezzi, Hamsik e Cavani), a Canale 34 difendevo Edy Reja e cantavo “Oje vita, oje vita mia” con Guido Lembo. Mi disse «La leggo da anni» e io non ebbi dubbi e - da improvvisato suddito - mi pavoneggiai: «In questa stagione canto il suo Napoli!». Fece in modo che ci isolassimo un momento: «La capisco, ma devo deluderla: io tifo Lazio, con tutta la famiglia. Viviamo a Roma da tanti anni, siamo praticamente apolidi…». Un sorriso, una stretta di mano, ero compiaciuto di un incontro che anni prima - tanti, era il 1956 - avrei affrontato con l’ardire di un sanculotto pronto a scannare il re. Già, Re Giorgio come lo chiamarono - anche spettegolando per la sua somiglianza con Umberto di Savoia, il re esule - dopo l’allontanamento dal partito che l’aveva invitato - o costretto - ad applaudire i carrarmati sovietici che entravano a Budapest. Lui - Napolitano - era in Parlamento, col suo elegante principe di Galles, borghesissimo leader del Partito Comunista, e difendeva l’iniquo diktat di Molotov, ultimo rappresentante dello stalinismo, mentre Kruscev ne denunciava le malefatte; io a Livorno, liceale al Niccolini, e guidavo una sommossa di studenti con bandiera tricolore fino a Piazza Garibaldi. Per questo non lo persi mai di vista, quel politico elegante, istruito, a volte freddo e affascinante come un Beria ma rispettato e temuto fino a diventare presidente della Camera.
Gli inizi della vita politica
La sua ambigua personalità mi spinse a conoscerlo meglio e lo ritrovai quando nel 1942, allievo di giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli, era entrato a far parte del GUF (Gruppo Universitario Fascista) scrivendo di teatro sul settimanale IX Maggio. Era la sua passione fin dagli anni del Liceo Umberto I che frequentava con Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Luigi Co mpagnone e Antonio Ghirelli. Seppi più tardi, quando incontrai Ghirelli direttore del Corriere dello Sport, che i fatti d’Ungheria li avevano separati, Antonio aveva lasciato il Pci e aveva scelto lo sport per essere libero. Ma proprio con l’amico direttore - non l’ho avuto maestro ma prezioso veicolo di storia e cultura - scoprii il primo “passaggio” di Napolitano dal GUF dei Quaranta al gruppo di giovani intellettuali comunisti che fecero rientrare nel ‘44 dall’URSS a Salerno il compagno Ercole Ercoli meglio noto come Palmiro Togliatti: era un momento di confusione e fra quei rivoluzionari era finito anche “l’anarchico di destra” Leo Longanesi di Bagnacavallo - il super maestro di alcuni di noi - per il quale la Svolta di Salerno rappresentava - come per Napolitano - un accordo fra la sinistra e la monarchia per salvare l’Italia. E mentre Giorgio, d’origine nobile, già rappresentava l’ala intellettuale della sinistra napoletana, il romagnolo Leo si ritraeva indossando una sdrucita divisa da soldato sconfitto e una bandierina tricolore in testa con la scritta “Tengo famiglia”.
Primo nella storia a essere eletto per un secondo mandato
Il passaggio successivo di Napolitano dal Pci pugnace e settario al riformismo democratico avvenne in tempi diversi sotto la guida “illuminata” di Giorgio Amendola e se nel ‘74 condannava ancora le opere di Aleksandr Solženicyn di lì a poco si ritrovava nell’area del riformismo fra i “miglioristi” che l’avrebbe portato all’incontro decisivo con Enrico Berlinguer e le sue idee. Divenne europeista e si staccò dall’URSS condannando l’invasione dell’Afghanistan. Così come Ghirelli aveva condannato quella dell’Ungheria. Trent’anni prima. È dunque stato l’Altro Napolitano il Presidente della Repubblica degli Italiani dal 15 maggio 2006 al 14 gennaio 2015. E il primo nella storia della Repubblica a essere eletto per un secondo mandato. Come Mattarella. Stiamo parlando di quei protagonisti della vita politica del Paese - a volte contraddittori - che proprio Longanesi definì “Vecchi Fusti”. Desiati e rispettati in vita, rimpianti in morte.