ROMA - Gianfelice Facchetti ha la stessa aria sobria e discreta di suo padre Giacinto, storico capitano dell'Inter e della Nazionale scomparso nel 2006. Una colonna del calcio italiano, una leggenda che continua a vivere attraverso le parole di suo figlio e dei ricordi di tutti gli appassionati di questo sport. Gianfelice non ha seguito le orme del padre ma ha scelto una strada diversa. All'arte del pallone ha preferito l'arte del teatro e della recitazione. Attore, drammaturgo, regista. La sua vita scorre sul palcoscenico. Le prove come un allenamento, il sipario come le scalette dello stadio e lo spettacolo come una partita. In fondo, non è poi così diverso...
Trovi analogie tra calcio e teatro?
«C’è una metodologia simile. Prepararsi a uno spettacolo è come prepararsi a una partita. La meticolosità, l’approccio artigianale è lo stesso. Noi attori abbiamo la responsabilità di presentarci nel migliore dei modi a chi vogliamo raccontare una storia. Non condivido l’approccio 'naif' che spesso si attribuisce all'"attore trasandato”. Dobbiamo curare tutto: testa e corpo, sì, un po’ come i calciatori».
Dalla laurea in scienze dell'educazione alla carriera di attore, drammaturgo e regista. Perché questo percorso?
«All’inizio mi ero iscritto a Filosofia, ho fatto qualche esame poi ho mollato. Ho cominciato a cercare la mia strada e per un po’ ho fatto lavori diversi come il barista o l'assicuratore. Poi mi sono iscritto a una scuola di teatro quasi per curiosità. Ho vinto una borsa di studio e mi sono ritrovato sul palcoscenico. Mi sono appassionato e ho scelto questa strada. Parallelamente mi è tornata la voglia si studiare e mi sono laureato in Scienze dell’educazione. Negli anni sono riuscito a coniugare le due cose».
Il tuo ultimo lavoro è uno spettacolo con un titolo che incuriosisce: "Mi voleva la Juve”
Nel 1978, quando tuo padre ha smesso di giocare a calcio, avevi 4 anni. Hai qualche ricordo di tuo padre calciatore?
Che padre era Giacinto Facchetti?
Qual è l'insegnamento più grande che ti ha lasciato?
Portare quel cognome è difficile?
«E’ difficile quando hai 15 anni e cerchi la tua strada. Il fatto che tutto il mondo ti riconosce come il figlio di qualcuno può bloccarti. Ma quando cresci e trovi la tua dimensione cominci a portare quel nome che prima ti sembrava po’ pesante con grande leggerezza».
Ricordiamo la tua partecipazione a molte fiction televisive sullo sport come quella sul Grande Torino e quella su Pantani. Cosa vuol dire portare una storia sportiva in Tv?
«Lo sport in televisione vive sempre un handicap strutturale, spesso il paragone non regge perché lo sport vero supera la finzione dello sport. In realtà, però, bisogna semplicemente cambiare prospettiva: cioè non bisogna cercare di riproporre l’epica dell’agonismo ma concentrarsi sul significato di una storia sportiva e costruirci una sceneggiatura intorno».
Tempo fa su Thohir dicevi: «Gli daremo un Bignami dell'Inter». Lo ha letto bene?
sempre gestito da persone legate alla storia di Milano. Thohir è arrivato, ha fatto cambiamenti importanti, ha seguito alcuni consigli che gli sono arrivati, alcuni giusti altri meno ma quest’anno l’Inter è partita molto bene sicuramente».
Facciamo un gioco: la tua formazione dell'Inter di tutti i tempi?
«Zenga; Bergomi, Picchi, Burgnich, Facchetti; Matteoli (è il mio idolo), Ince, Zanetti; Jair, Milito, Diaz».