Gianfelice Facchetti: «La verità sull'Inter, mio padre e Moggi»

Il figlio dell'ex capitano dell'Inter parla di tutto
Gianfelice Facchetti: «La verità sull'Inter, mio padre e Moggi»© LaPresse
Tommaso Maggi
8 min

ROMA - Gianfelice Facchetti ha la stessa aria sobria e discreta di suo padre Giacinto, storico capitano dell'Inter e della Nazionale scomparso nel 2006. Una colonna del calcio italiano, una leggenda che continua a vivere attraverso le parole di suo figlio e dei ricordi di tutti gli appassionati di questo sport. Gianfelice non ha seguito le orme del padre ma ha scelto una strada diversa. All'arte del pallone ha preferito l'arte del teatro e della recitazione. Attore, drammaturgo, regista. La sua vita scorre sul palcoscenico. Le prove come un allenamento, il sipario come le scalette dello stadio e lo spettacolo come una partita. In fondo, non è poi così diverso...

Trovi analogie tra calcio e teatro?
«C’è una metodologia simile. Prepararsi a uno spettacolo è come prepararsi a una partita. La meticolosità, l’approccio artigianale è lo stesso. Noi attori abbiamo la responsabilità di presentarci nel migliore dei modi a chi vogliamo raccontare una storia. Non condivido l’approccio 'naif' che spesso si attribuisce all'"attore trasandato”. Dobbiamo curare tutto: testa e corpo, sì, un po’ come i calciatori».

 

Dalla laurea in scienze dell'educazione alla carriera di attore, drammaturgo e regista. Perché questo percorso?
«All’inizio mi ero iscritto a Filosofia, ho fatto qualche esame poi ho mollato. Ho cominciato a cercare la mia strada e per un po’ ho fatto lavori diversi come il barista o l'assicuratore. Poi mi sono iscritto a una scuola di teatro quasi per curiosità. Ho vinto una borsa di studio e mi sono ritrovato sul palcoscenico. Mi sono appassionato e ho scelto questa strada. Parallelamente mi è tornata la voglia si studiare e mi sono laureato in Scienze dell’educazione. Negli anni sono riuscito a coniugare le due cose».

 
Ti riferisci all’esperienza teatrale con l’Istituto dei ciechi di Milano?
«Sì, è una delle cose per cui vado più orgoglioso. Ho scoperto l’esperienza tedesca del “Dialogo nel buio", un percorso che immerge il pubblico nella vita quotidiana delle persone non vedenti. E da lì che mi è venuto in mente di fare uno spettacolo completamente nel buio. Iniziammo così l’esperienza all’Istituto dei ciechi di Milano con un primo spettacolo scritto da me e ci accorgemmo che funzionava, e funzionava molto. E’ diventato un appuntamento mensile da anni che mi regala sempre grandi soddisfazioni. L’ultimo spettacolo che abbiamo realizzato s’intitola "Come è bella la città” che recito da solo con un musicista. Uno spettacolo che valorizza l’ascolto delle parole ma che soprattutto riesce a creare un punto di complicità e di intimità tra lo spettatore e chi recita e anche tra gli spettatori stessi».

Il tuo ultimo lavoro è uno spettacolo con un titolo che incuriosisce: "Mi voleva la Juve”
«E’ la vera storia dell'attore che la interpreta, Giuseppe Scordio: è una storia di un ragazzino che gioca a pallone nella periferia milanese degli anni ’70. E’ una Milano che sta cambiando dove il campo da calcio è un po’ una zona incontaminata per superare i problemi sociali». 
 
E la Juve?
«La Juve arriva nella vita di questo ragazzino quando va a Torino per un provino. Ma passerà un’estate intera e nessuno lo chiamerà più dal club bianconero. E’ uno spettacolo sul sogno e sul valore della disillusione. Alla fine si scopre che i cattivi non sono quelli della Juve ma quelli che hanno preteso una cifra troppo per il ragazzino... La Juve rappresenta il sogno, quel sogno di raggiungere una realtà che solo le figurine facevano intravedere».

Nel 1978, quando tuo padre ha smesso di giocare a calcio, avevi 4 anni. Hai qualche ricordo di tuo padre calciatore?
«Ricordi di papà allo stadio pochissimi. Ricordo però gli ultimi allenamenti alla Pinetina. E’ un’immagine molto piacevole: tutti i compagni di squadra di mio padre erano come dei giganti per me e avvertivo come un senso di protezione...».

Che padre era Giacinto Facchetti?
«Papà era molto presente. Anche quando il lavoro lo teneva via, voleva sempre sapere quello che stavi facendo. Era molto attento al dettaglio, al particolare, sapeva esserci e aveva sempre un pensiero per gli altri».

Qual è l'insegnamento più grande che ti ha lasciato?
«Cercare di fare le cose al meglio senza risparmiarsi mai, senza lesinarsi nel darsi al 100%». 

Portare quel cognome è difficile?
«E’ difficile quando hai 15 anni e cerchi la tua strada. Il fatto che tutto il mondo ti riconosce come il figlio di qualcuno può bloccarti. Ma quando cresci e trovi la tua dimensione cominci a portare quel nome che prima ti sembrava po’ pesante con grande leggerezza».
 
Il più grande pregio di tuo padre?
«L’altruismo».
 
E il difetto?
«La rigidità di posizione anche se in realtà alla fine riusciva sempre a mettersi in discussione».

Ricordiamo la tua partecipazione a molte fiction televisive sullo sport come quella sul Grande Torino e quella su Pantani. Cosa vuol dire portare una storia sportiva in Tv?
«Lo sport in televisione vive sempre un handicap strutturale, spesso il paragone non regge perché lo sport vero supera la finzione dello sport. In realtà, però, bisogna semplicemente cambiare prospettiva: cioè non bisogna cercare di riproporre l’epica dell’agonismo ma concentrarsi sul significato di una storia sportiva e costruirci una sceneggiatura intorno».

Tempo fa su Thohir dicevi: «Gli daremo un Bignami dell'Inter». Lo ha letto bene?
«Lo dicevo perché c’era la preoccupazione di preservare la tradizione in un club 
sempre gestito da persone legate alla storia di Milano. Thohir è arrivato, ha fatto cambiamenti importanti, ha seguito alcuni consigli che gli sono arrivati, alcuni giusti altri meno ma quest’anno l’Inter è partita molto bene sicuramente
».
 
L'Inter vincerà lo scudetto?
«E’ prematuro parlarne. Credo che ci siano delle squadre più attrezzate come Juventus e Roma ma l’Inter ha tutto per arrivare almeno in Champions League».

Facciamo un gioco: la tua formazione dell'Inter di tutti i tempi?
«Zenga; Bergomi, Picchi, Burgnich, Facchetti; Matteoli (è il mio idolo), Ince, Zanetti; Jair, Milito, Diaz».
 
Moggi è stato assolto in primo grado dalla tua accusa di diffamazione ai danni di tuo padre. Come hai reagito?
«Per il giudice quello di Moggi è stato un diritto di critica in buona fede. Ne prendo atto. Forse sono stato un po’ ingenuo a pensare che una cosa così potesse essere perseguibile ma questo non cambia lo stato delle cose. Questa assoluzione è stata “venduta” come se potesse riscrivere la storia di Calciopoli dal 2006 a oggi, ma non è assolutamente così. Dopo due giorni sono uscite le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione sul processo di Napoli e lì c’è tutto per capire il mondo del pallone dove si è mosso mio padre. Una causa di diffamazione non cambia niente, la memoria di mio padre, per me, è sempre al sicuro. Ora mi domando se vale la pena ricorrere in Appello perché tutte le volte che ho messo piede in tribunale non mi sono mai sentito tutelato e ho sentito troppa superficialità».

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