Vialli, il bomber che leggeva il futuro

Non voleva lasciare la Samp e il mare, ma nella Juve vide una chance; poi il Chelsea, il trionfo di Wembley e l’ultimo capitolo: Londra nel destino
Vialli, il bomber che leggeva il futuro© ANSA
Roberto Perrone
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Quando si spegneva il segnale dell’obbligo della cintura, scattavamo tutti in avanti, come centometristi con qualche problema di tenuta, lungo la carlinga, verso la testa dell’aereo. A quei tempi, nei viaggi con le squadre di calcio, Nazionale compresa, era “liberi tutti”, si poteva andare ovunque, parlare con chiunque, se il soggetto era ben disposto e lo era quasi sempre. Quella volta, forse tornavamo da Zurigo o giù di lì, con la Nazionale, io puntai decisamente su un ragazzo riccioluto che si stava prendendo il palcoscenico del football italiano. Gianluca Vialli è sempre stato un’anomalia, sia con i riccioli, sia senza. I capelli ha cominciato a perderli molto prima della malattia. Raggiunsi il suo posto e lo trovai che leggeva un romanzo di Jeffrey Archer. Già, era proprio diverso rispetto ai suoi colleghi. E non solo, diciamo che vedere un ragazzo che leggeva non era uno spettacolo abituale, a metà dei rutilanti anni ’80. Lui è sempre stato diverso per nascita e vocazione. Innanzitutto veniva da una famiglia agiata (aveva vissuto infanzia e adolescenza a Villa Affaitati, scusate) e si era messo a giocare a pallone per passione, perché era un ragazzo che amava il pallone, come quasi tutti a quell’età. Mollò lo studio per il calcio, ma a dimostrazione dei suoi valori, si prese il diploma di geometra quand’era alla Juventus, nel 1993. Il sacro fuoco del football ce l’aveva in testa, liberato da ogni sovrastruttura economica o sociale. E in testa conservava una rara intelligenza. Infatti, eccolo qui, seduto sull’aereo della Nazionale, con un libro in mano, l’unico su quel volo, giornalisti compresi, sorpreso della nostra sorpresa. Luca Vialli sapeva come comunicare. Aveva la capacità di farsi trovare pronto di fronte a ogni domanda. Difficile che cadesse nei trabocchetti polemici dei giornalisti. Io l’ho conosciuto e frequentato grazie al Mancio. Eh sì, bella coppia, anche perché all’opposto. Mancini fa fatica a rispondere a semplici domande tipo “come ti chiami?”, ancora adesso. Dà sempre l’impressione di non essere a suo agio. La sua timidezza innata, la sua riservatezza ci fecero diventare amici anche perché, a quei tempi, Roberto con Luca era al comando nella Sampdoria, ma fuori Genova non godeva di buona stampa. Luca sì, Roberto no. A differenza dell’amico e sodale. Ci si vedeva alla Ruota di Nervi, il ristorante di riferimento dei giocatori della Sampdoria, e spesso, lì, trovavamo Vialli che pranzava da solo. Così facevamo tavolata. Ricordo che una volta Luca mi rimproverò per l’eccesso di cibo che ingurgitavo. Con garbo e ironia, a differenza dei numerosi iscritti al club “Perrone mangia meno” che mi hanno accompagnato per quasi tutta la mia esistenza. Ero più amico del Mancio, ma con Luca c’era un bel rapporto, che ho provveduto a rovinare, o per lo meno a compromettere. Accadde nel 1988, alla vigilia dell’Europeo in Germania, dove ci eravamo qualificati grazie ai suoi gol decisivi. Un settimanale che non c’è più, “Il Sabato”, mi chiese una pagina sui giocatori da tenere d’occhio nel torneo tedesco. Ovviamente misi il Mancio che mi ripagò con il gol alla Germania all’esordio (di Vialli quello alla Spagna che ci spedì in semifinale). Non so come, non so perché, ma per descrivere la timida riservatezza di Mancini scrissi: «è meno scaltro e ruffiano di Vialli». Volevo dire che Luca era più portato per le pubbliche relazioni, ma est modus in rebus, potevo dirlo così o con espressione simile, senza dargli del “ruffiano”, che poi Luca non era. Non so quale forma di demenza mi afferrò. Mi dimenticai dell’articolo anche perché il Sabato era un settimanale di nicchia e non pensavo che sarebbe arrivato a Bogliasco. E invece, “è la stampa bellezza e tu non la puoi fermare”, arrivò eccome. Luca non mi disse nulla. Fu il simpatico ds Borea, con cui per qualche anno non ebbi buoni rapporti, a comunicarmi, tutto compiaciuto, che Vialli ce l’aveva con me. Chiesi un incontro e feci le mie scuse. Lui era colpito dal fatto che fossi arrivato a descriverlo così, senza filtri. Cioè, più che per l’offesa era colpito dal vuoto temporaneo della mia intelligenza. La domanda non pronunciata era: ma come ti è venuto in mente di scrivere una cosa così? I rapporti ripresero cordiali, anche se meno frequenti di prima. Nel 1992 lo ritrovai alla Juventus. La splendida utopia doriana aveva sbattuto contro Koeman e il Barcellona nella finale di Coppa dei Campioni del 1992. Luca andò alla Juventus. Da anni, quando gli chiedevamo perché non accettasse le luccicanti proposte dei grandi club di Milano o Torino, ribatteva: «Ma da là, si vede il mare?». No, però lui vide un nuovo scorcio di carriera, con scudetto 1995 e Champions 1996, che Luca alzò da capitano. Quell’anno feci un tifo accanito e poco professionale per lui. Successe che un collega di un giornale concorrente scrisse che aveva il ginocchio sifulo e che presto avrebbe dovuto mollare. Quando prese la coppona nella notte romana, esultai come neanche un ultrà della curva Scirea. Due giorni dopo annunciava il suo trasferimento al Chelsea. Londra nel destino. Ci siamo sentiti più volte da quando divenne cittadino della grande mela inglese. Una volta imbandì una guida per Carlo Ancelotti che stava per sedersi sulla panchina del Chelsea. I posti migliori, i ristoranti, i teatri. Anche negli ultimi anni, “con il maglione sotto la camicia” come confessò, la sua classe nel vestire e nell’essere non è mai venuta meno. Ricordo che a Torino, lui e Riccardo Grande Stevens, figlio di Franzo “l’avvocato dell’avvocato”, inventarono una linea di vestiario molto british. Le trasferte della Juventus con loro erano una sfilata di moda. Londra nel destino. Londra che gli restituisce, nell’abbraccio con il Mancio, la notte dell’undici luglio 2021, quanto perduto ventinove anni prima. Londra, la sua casa, dove ha concluso il suo sentiero. Londra la città dove è diventato vicino di Jeffrey Archer di cui stava leggendo un libro quando parlammo la prima volta, tanti riccioli fa. Londra che mette la parola fine a una storia straordinaria. Anzi, più giusto, the end.


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