Grandezza e bellezza, l'eterno dilemma

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Grandezza e bellezza, l'eterno dilemma
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Roberto Beccantini

È la libertà la bussola che ci orienta, la bilancia che ci pesa. La libertà di pensiero, di azione. Non la bellezza, che pure, a detta di autorevoli scribi, muoverebbe il mondo. Il mondo lo muove la libertà che, parole e musica di Giorgio Gaber, è partecipazione. E anche, per fortuna, divisione. Oppure, per sfortuna, omologazione. 
Proprio nel periodo in cui le sentenze stanno scorticando la Juventus, il celeberrimo mantra di Giampiero Boniperti - «vincere non è importante, è l’unica cosa che conta» - agita chiassosi dibattiti. Si tratta dello slogan che il presidente raccattò dai pizzini sparsi di Vince Lombardi, guru del football americano, e costui da Henry Russell Red Sanders, coach dell’Ucla. Ragioniamo di stadi, non di tribunali. Di partite, non di udienze. 
Il risultato. Questo feticcio. Questo dittatore. Hai voglia di ridurlo a «mezzo»: sempre e comunque incarnerà il fine. Se non, in caso di sconfitta, addirittura la «fine». Il 4-0 che il Manchester City di Pep Guardiola ha inflitto al Real Madrid di Carlo Ancelotti è stato correttamente spacciato per simbolo, supremo e superbo, del calcio più spettacolare oggi immaginabile. Il grande e il bello che si mescolano, si confondono: non esiste un «oltre».

La Roma e il bello diverso

Viceversa, lo 0-0 di Leverkusen appartiene alla sfera opposta, al concetto di tirannia, all’idea dell’obiettivo che imprigiona e schiavizza le analisi. E pazienza se i numeri strillano (1 tiro della Roma contro i 23 del Bayer), se le cifre si ammutinano (28% a 72% di possesso), se da qualche pulpito maliziosi colpi di tosse accompagnano, e pizzicano, la vaselina delle edicole. Per carità, non c’è paragone fra i tesori degli emiri del City e le risorse dei texani della Lupa, ma qui si parla di noi garanti dell’informazione più che di José Mourinho, docente di propaganda. 
Non una censura, non un «però» si sono levati a bollare l’abuso di catenaccio, il vecchio arnese che la nostra ipocrisia sbandiera o deplora in base all’esito. Tranne Antonio Cassano, nessuno, da Fusignano (stranamente) a Trigoria (naturalmente), ha letto il supplizio tedesco attraverso le lenti dell’estetica. Nessuno. Perché era un «bello» diverso, legato alle urgenze della missione, come la Kop, la mitica curva del Liverpool, era «bella» perché profumava di cipolla e di piscio; e non uno che, annusandone la storia, si turasse il naso. Nemmeno tra gli avversari. 

Vincere non è tutto, ma è tutti noi

Libertà, allora. Non bellezza. La prima è assoluta, la palpi. La seconda è relativa, la scegli. Il catechismo del Trap, se paragonato al «pullman» che ogni tanto Mou piazza davanti all’area, sembra uscito, ebbene sì, da una costola guardiolesca. 
Non si hanno notizie di tifosi romanisti furenti per il «modo»: crepitavano, le cronache, di caroselli mossi dall’ebbrezza dell’«approdo» (a Budapest, a Budapest). Paradossalmente, Massimiliano Allegri continua a «non perdere» anche quando perde; dal corto Suso di Siviglia al corto muso del Vate non è che ci sia un abisso. C’è «solo» la finale di Europa League. Per Oscar Wilde «la bruttezza è uno dei sette peccati capitali». Sarà. Non nello sport. Dove vincere non è tutto: è tutti noi. 

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